lunedì 24 luglio 2017

47 La popolazione mondiale: migrazioni ieri e oggi


La specie umana ha sempre avuto bisogno di spostarsi, fin dalla sua comparsa in Africa: da questo continente essa si diffuse progressivamente nelle terre più vicine, in primo luogo in Asia e in Europa, più tardi (a partire da almeno 30.000, ma forse anche 60.000 anni fa, fino a 10.000 anni fa) si spinse nell’America settentrionale, che era allora unita alla Siberia in corrispondenza dell’attuale stretto di Bering, e di lì scese lungo il continente americano, fino a raggiungerne l’estremità meridionale. L’Australia fu popolata circa 50.000-40.000 anni fa da uomini provenienti dall’Asia.
Le ultime terre in cui si insediarono esseri umani furono alcune isole più lontane dalla costa: quelle oceaniche, che nel I millennio d.C. furono raggiunte da popolazioni provenienti dall’Asia (nel 400 le Hawaii, nell’850 la Nuova Zelanda), e l’Islanda, in cui i Vichinghi si stabilirono alla fine del IX secolo d.C. Anche quando tutte le terre abitabili furono popolate, gli uomini continuarono a spostarsi, sia su brevi, sia su grandi distanze, alla ricerca di condizioni di vita migliori.

La migrazione dell’Homo sapiens: le date indicano approssimativamente quanti anni fa la specie umana si diffuse nelle varie località

Le migrazioni dipendono da diversi fattori. In primo luogo c’è l’esigenza di trovare le risorse necessarie per la sopravvivenza, che possono essere insufficienti nel territorio in cui vive la popolazione: in particolare la terra può non essere più in grado di fornire cibo a tutti gli abitanti, oppure per improvvise catastrofi, quali una siccità prolungata, o perché uno sfruttamento eccessivo dell’ambiente l’ha impoverita.
Quando vengono a mancare terre e cibo, una parte della popolazione si sposta, come fecero i Greci nell’Età Antica. Altre popolazioni lasciano invece la propria terra perché scacciate da un popolo più forte. In società più complesse, un gruppo può essere costretto a lasciare la propria terra, o scegliere di farlo, perché perseguitato per motivi politici o religiosi, come accadde ai puritani inglesi nel XVII secolo o agli anabattisti (protestanti) che lasciarono l’Europa orientale per stabilirsi in America tra l’Ottocento e il Novecento.

La Mayflower, la nave che portò i puritani inglesi in America nel 1620, nella ricostruzione conservata nel porto di Plymouth (Massachusetts)

Quando sulla Terra vivevano pochi gruppi umani, le migrazioni potevano avvenire senza creare contrasti. Quando però l’intero pianeta fu popolato, i popoli che si spostavano cercavano nuove terre in regioni già abitate e questo causò spesso conflitti e guerre. Al termine di questi scontri uno dei due popoli poteva essere sottomesso, come accadde agli abitanti originari dell’India dopo l’invasione degli Arii (II millennio a.C.), o sterminato, come i Tasmaniani dopo l’arrivo degli europei in Oceania, oppure poteva verificarsi nel tempo una mescolanza di popolazioni, per cui si formava un nuovo popolo, con caratteristiche di entrambi i gruppi.

Cartolina del 1907 con 4 donne tasmaniane

Le migrazioni umane nel corso della storia furono innumerevoli e portarono a continue mescolanze di popoli. È impossibile anche solo elencarle tutte, perciò vediamo soltanto quelle che hanno modificato più profondamente la distribuzione della specie umana sulla Terra.
Dal XVI secolo in poi cominciò una rapida espansione delle popolazioni europee in America e poi, nei secoli successivi, in Africa, Asia e Australia. Tali migrazioni furono determinate soprattutto dall’aumento di popolazione in Europa e furono rese possibili dal possesso di una tecnologia avanzata, che permise di sottomettere le popolazioni originarie.
Lo spostamento di popolazione fu fortissimo soprattutto nell’Ottocento, verso l’America, dove si diressero decine di milioni di europei (oltre 25 milioni solo negli Stati Uniti tra il 1861 ed il 1910), ma anche in Africa (oltre un milione di francesi solo in Algeria), in Asia e in Australia.

Illustrazione della battaglia della Smala (1843) tra esercito francese e resistenti algerini

La conquista e le migrazioni portarono allo sterminio delle popolazioni locali in vaste aree dell’America, soprattutto settentrionale e sud-orientale, e in Australia: qui la larga maggioranza della popolazione è oggi di origine europea. In alcune aree, in particolare nell’America centrale, si ebbe invece una forte mescolanza di razze ed oggi la popolazione del Messico è costituita in maggioranza da meticci (incroci tra europei e amerindi). Diversa la situazione in Asia e in Africa, dove oggi la presenza di europei è più ridotta e limitata ad alcune aree, quali il Sudafrica e l’Asia settentrionale (Russia asiatica e Kazakistan): mentre nell’Africa meridionale l’immigrazione europea si verificò soprattutto tra il Settecento e l’Ottocento, nell’Asia settentrionale essa è un fenomeno più recente, che ha raggiunto il culmine nel Novecento.

Bambini di discendenza maya in Messico

In America il rapido declino della popolazione indigena, dovuto alle malattie portate dagli europei, alle guerre, allo sfruttamento spietato, privò i coloni europei della manodopera necessaria per il lavoro nelle miniere e nelle piantagioni. Gli europei cominciarono perciò a procurarsi schiavi neri in Africa e a portarli in America: almeno dieci milioni di africani vennero portati in catene a lavorare nelle colonie spagnole, portoghesi, francesi, inglesi e olandesi del Nuovo Continente.
La tratta dei neri, come viene chiamato il commercio di schiavi africani, devastò vaste regioni dell’Africa, frenandone l’aumento demografico, e provocò una nuova mescolanza di popolazioni in America. Qui i neri di origine africana sono oggi numerosi lungo la costa dell’oceano Atlantico e costituiscono la maggioranza della popolazione in molte isole delle Antille, un tempo occupate da piantagioni in cui lavoravano come schiavi.

Scuola ad Haiti, con insegnanti e alunni di origine africana

Nel corso degli ultimi secoli vi fu anche una migrazione molto intensa di cinesi, che lasciarono il loro paese, sovrappopolato, dirigendosi verso altri paesi asiatici (Malesia, Indonesia, Tailandia, Cambogia, Vietnam, Myanmar, Filippine) e verso l’America; oggi a Singapore i cinesi costituiscono la maggioranza della popolazione e negli Stati Uniti e in Canada (a New York, a San Francisco, a Vancouver) esistono estese Chinatown (letteralmente: città cinesi), quartieri in cui si concentrano le famiglie di origine cinese. Meno numerosi invece gli immigrati giapponesi, presenti oggi in alcuni Stati dell’America, tra cui gli Stati Uniti.

La Dragon’s Gate di San Francisco (Usa), la porta d’ingresso a Chinatown

Anche dall’India, nel periodo di dominio coloniale inglese, vi fu una consistente emigrazione diretta verso altre colonie inglesi, soprattutto in Africa (Sudafrica, Zambia, Kenya, Tanzania), dove gli indiani formano ancora oggi una classe media di commercianti, e nel Suriname (America meridionale) e nelle isole Figi (Oceania): in questi due ultimi stati gli abitanti di origine indiana costituiscono attualmente circa il 37% della popolazione.

Raccoglitore di canna da zucchero di origine indiana nelle isole Fiji

Dopo la seconda guerra mondiale e per tutta la seconda metà del XX secolo nuove migrazioni si sono verificate in tutto il mondo. Le cause, oltre a quella di trovare migliori condizioni economiche, sono state le più diverse: tra esse ha avuto grande importanza il cambiamento dei confini statali e la creazione di nuove nazioni, due fenomeni frequenti dopo ogni conflitto. Ad esempio, dopo la sconfitta della Germania nazista e il ritorno alla Polonia e all’Unione Sovietica dei territori che essa aveva occupato nell’Europa orientale, dieci milioni di tedeschi dovettero lasciare le loro case. O, per fare un altro esempio, nel 1947-1948, in seguito alla divisione dell’India britannica in due Stati, l’India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana, sedici milioni di persone si spostarono da uno Stato all’altro.

Rifugiati musulmani lasciano l’India alla volta del Pakistan nel settembre 1947

Le guerre, ovviamente, sono alla base di massicce emigrazioni, poiché la popolazione fugge non solo dalla povertà ma anche dalla violenza. La guerra civile che devastò l’Angola dal 1975 al 2002 ha generato più di 4 milioni di sfollati all’interno del paese. Alla fine degli anni Settanta la Somalia venne insanguinata da una guerra civile che oppose organizzazioni di guerriglia al generale Siad Barre al potere in seguito a un colpo di stato militare: moltissimi abitanti emigrarono verso l’Europa e il Sudafrica. Nel 1994 il genocidio avvenuto in Ruanda tra le due etnie Hutu e Tutsi provocò 800.000 morti e altrettanti profughi. Questi sono soltanto alcuni esempi dell’emigrazione dovuta a una guerra.

Rifugiati ruandesi al confine con la Tanzania nel maggio 1994

Tutte le guerre provocano la fuga di una parte della popolazione, soprattutto se vengono combattute su un’area molto vasta e durano a lungo. I profughi, cioè coloro che fuggono da un paese devastato dalla guerra, cercano rifugio (per questo sono chiamati anche rifugiati) in altri Stati, di solito quelli più vicini; e poiché i conflitti sono più frequenti nei paesi del Terzo Mondo, la maggioranza dei profughi va a vivere in Stati altrettanto poveri di quelli di provenienza e spesso sono costretti a vivere in accampamenti privi dei servizi essenziali o in altre sistemazioni precarie. A volte la povertà nei paesi ospitanti è tale, che la gente del posto “invidia” i profughi, i quali ricevono gli aiuti internazionali ed hanno almeno un pasto al giorno.

Profughi vietnamiti arrivano in Australia nel 1977 in battello; per questo furono chiamati boat-people

Un caso tristemente famoso è quello degli 860.000 rifugiati palestinesi, costretti tra il 1948 e il 1950 ad abbandonare le proprie terre occupate da Israele e a trasferirsi in campi profughi gestiti dall’ONU.
Anche quando un paese è sotto un regime dittatoriale molti sono costretti a fuggire per evitare dure condanne o anche la morte: dopo il colpo di stato in Cile (1973) 150.000 cileni lasciarono il loro paese.
Nel 1951 l’ONU ha dato vita a un trattato (Convenzione di Ginevra), che stabilisce che chiunque sia perseguitato nel proprio paese e rischi la vita ha diritto ad essere considerato rifugiato e a ricevere asilo politico in qualunque Stato. L’agenzia che si occupa dei rifugiati nel mondo si chiama Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR = United Nations High Commissioner for Refugees), ha sede a Ginevra e ha vinto due volte il premio Nobel per la Pace, nel 1954 e nel 1981.

La sede dell’UNHCR a Ginevra (Svizzera)

Nuove massicce migrazioni continuano a interessare tutto il pianeta anche nel Terzo millennio: gli spostamenti – come accade ormai da alcuni decenni – avvengono soprattutto dal sud del mondo (dove si trovano i paesi più poveri) al nord. Questo fenomeno dipende dalle condizioni di miseria in cui vive la popolazione di moltissimi Stati africani, asiatici e latino-americani: miseria dovuta a carestie, guerre spesso civili, causate da odio etnico, integralismi di tipo politico o religioso. In Afghanistan la guerra ha fatto fuggire 1 abitante su 3; nel Sudan i neri delle regioni meridionali riescono a tornare nei loro villaggi, ma la persecuzione si è sviluppata nel Darfur occidentale; in Liberia un terzo della popolazione ha abbandonato il paese. Anche in Europa le guerre seguite alla dissoluzione della ex-Jugoslavia hanno causato milioni di profughi bosniaci, kosovari, serbi, croati, e solo una parte di essi ha potuto tornare nelle proprie case.

Campo profughi nel Darfur (Sudan) nel 2014

Quanto la guerra influisca nello spingere un individuo a emigrare è dimostrato dal numero di persone che negli ultimi quarant’anni sono fuggite dal loro paese: erano 2,5 milioni nel 1974, 10,5 milioni nel 1984, 37,5 milioni nel 2005, 59,5 milioni nel 2014, 65,3 milioni nel 2016 (dei quali più di 10 milioni di età inferiore ai 18 anni). E le guerre continuano a scoppiare con incredibile frequenza; soltanto negli ultimi 5 anni ne sono scoppiate almeno 15: otto in Africa (Libia, Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Mali, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e Burundi), sei in Asia (Siria, Iraq, Yemen, Kirghizistan, Birmania e Pakistan), una in Europa (Ucraina).

Campo profughi siriano al confine con la Turchia nel 2013

Se la meta principale di queste migrazioni è costituita dai Paesi ricchi dell’emisfero settentrionale (Stati Uniti, Canada, Russia, Europa), uno spostamento consistente si verifica anche all’interno degli Stati poveri: nei paesi in cui c’è un certo sviluppo economico e le possibilità di trovare lavoro sono maggiori, ad esempio quelli in cui lo sfruttamento di giacimenti di petrolio ha creato una richiesta di manodopera, vi è una forte immigrazione dagli Stati vicini. Sono così divenuti meta di immigrazione paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait in Asia, la Nigeria in Africa, il Venezuela in America latina.

Impianti per l’estrazione petrolifera in Venezuela: l’estrazione petrolifera è la principale voce dell’economia venezuelana ed ha attirato una forte immigrazione

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2005 (aggiornato in parte al 2013) vi sono oggi nel mondo 232 milioni di emigrati: i 10 paesi con più immigrati sono gli Stati Uniti (circa 45 milioni), Russia (più di 11 milioni), Germania (quasi 10 milioni), Arabia Saudita (circa 9 milioni), Emirati Arabi Uniti e Regno Unito (quasi 8 milioni), Francia (circa 7 milioni e mezzo), Canada (più di 7 milioni), Australia e Spagna (circa 6 milioni e mezzo). Secondo altre fonti nel 2015 gli immigrati nel mondo erano 244 milioni, con un aumento dall’anno 2.000 del 41%.
Le migrazioni attuali coinvolgono quasi tutti gli Stati e interessano non soltanto lavoratori maschi poco specializzati, come accadeva in passato, ma anche donne povere e giovani qualificati. Questi migrano anche tra Stati ricchi: il fenomeno interessa tecnici e scienziati che si spostano in particolare dall’Europa agli USA.
Alcune di queste migrazioni sono definitive: persone o nuclei familiari si stabiliscono in un paese che li accoglie, in cui cercano di integrarsi, magari conservando ancora per qualche tempo un legame con il paese d’origine. Altre migrazioni sono provvisorie: molti lavoratori contano di ritornare al paese d’origine dopo aver guadagnato abbastanza per avviare un’attività in proprio. Ugualmente profughi e rifugiati politici preferiscono ritornare in patria, se la situazione lo permette. È però impossibile distinguere tra migrazioni definitive e provvisorie: molti partono con l’intenzione di ritornare al proprio paese, ma cambiano idea dopo un certo numero di anni di permanenza all’estero; altri invece partono decisi a stabilirsi definitivamente altrove, ma non trovano condizioni di lavoro o di vita soddisfacenti e ritornano in patria.

Immigrati impiegati nella raccolta di zucche negli stati Uniti

Le migrazioni hanno notevoli conseguenze sulle popolazioni e sulle economie dei paesi interessati sia dalle partenze sia dagli arrivi dei migranti. In quelli economicamente sviluppati, per esempio, l’arrivo degli immigrati ha compensato il calo della popolazione (causato dalla diminuzione delle nascite) determinando un lieve incremento degli abitanti. I lavoratori immigrati colmano anche il vuoto dovuto alla diminuzione di giovani in età lavorativa e contribuiscono a mantenere in equilibrio i sistemi pensionistici. Nei paesi poveri l’emigrazione da un lato priva la popolazione dei suoi abitanti più giovani e istruiti, dall’altro consente ogni anno l’afflusso di decine di miliardi di dollari grazie alle rimesse, somme di denaro che gli emigranti inviano nel loro paese d’origine.
Svariati sono i problemi che incontrano gli immigrati: talvolta l’integrazione viene realizzata senza eccessivi problemi. Generalmente, però, dove gli immigrati sono numerosi si possono avere reazioni di intolleranza da parte della popolazione locale, in particolare nei periodi di crisi economica, quando la disoccupazione è maggiore e gli immigrati vengono accusati di sottrarre il posto di lavoro ai cittadini dello stato che li ospita.

Migranti pachistani in Grecia

Tali reazioni si manifestano tanto più facilmente quanto più profonde sono le differenze tra gli immigrati e la popolazione autoctona: questa infatti teme a volte la perdita della propria identità culturale, ha paura che venga messa in pericolo la convivenza sociale, accusa gli immigrati di accettare salari bassissimi per lavori che essa non vuole più svolgere.
A volte i migranti possono finire nelle mani di organizzazioni criminali, che gestiscono vere e proprie tratte di esseri umani. I migranti sono imbarcati, dopo aver pagato cifre altissime, per viaggi molto pericolosi, durante i quali il rischio di morire è frequente: il mar Mediterraneo ha visto annegare migliaia di migranti che cercavano di raggiungere l’Europa.

Barcone di migranti nel mar Mediterraneo (2014)

Una volta arrivati a destinazione, i migranti incontrano altre difficoltà: spesso si trovano nella condizione di clandestini, sono cioè privi di un regolare permesso di soggiorno che consenta loro di vivere e di lavorare nel paese in cui sono giunti. La condizione di clandestinità produce una serie di tragiche conseguenze: i migranti sono costretti infatti ad accettare condizioni di lavoro pesantissime, lavorando in nero, cioè senza regolare contratto e senza alcuna tutela. Da questa situazione traggono spesso vantaggio i datori di lavoro, che non pagano tasse e contributi sul lavoro dei clandestini.
I problemi sollevati dalla crescente immigrazione nei paesi ricchi sono enormi e la politica non è in grado al momento di affrontarli; anzi, in molti Stati (in Europa e negli Stati Uniti) stanno crescendo i partiti politici che, anziché cercare di risolvere concretamente tali problemi, traggono vantaggio elettorale incentivando le paure – spesso infondate – dei cittadini comuni. Molti muri sono stati innalzati negli ultimi anni contro migranti, profughi e rifugiati; ma nessun muro è in grado di fermare una persona che fugge dalla violenza e dalla miseria.

Gente sul lato messicano della recinzione (the fence) tra Usa e Messico



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