La specie umana ha sempre avuto
bisogno di spostarsi, fin dalla sua comparsa in Africa: da questo continente
essa si diffuse progressivamente nelle terre più vicine, in primo luogo in Asia
e in Europa, più tardi (a partire da almeno 30.000, ma forse anche 60.000 anni
fa, fino a 10.000 anni fa) si spinse nell’America settentrionale, che era
allora unita alla Siberia in corrispondenza dell’attuale stretto di Bering, e
di lì scese lungo il continente americano, fino a raggiungerne l’estremità meridionale.
L’Australia fu popolata circa 50.000-40.000 anni fa da uomini provenienti
dall’Asia.
Le ultime terre in cui si
insediarono esseri umani furono alcune isole più lontane dalla costa: quelle
oceaniche, che nel I millennio d.C. furono raggiunte da popolazioni provenienti
dall’Asia (nel 400 le Hawaii, nell’850 la Nuova Zelanda), e l’Islanda, in cui i
Vichinghi si stabilirono alla fine del IX secolo d.C. Anche quando tutte le
terre abitabili furono popolate, gli uomini continuarono a spostarsi, sia su
brevi, sia su grandi distanze, alla ricerca di condizioni di vita migliori.
La migrazione dell’Homo sapiens: le date indicano approssimativamente
quanti anni fa la specie umana si diffuse nelle varie località
Le migrazioni dipendono da diversi
fattori. In primo luogo c’è l’esigenza di trovare le risorse necessarie per la
sopravvivenza, che possono essere insufficienti nel territorio in cui vive la
popolazione: in particolare la terra può non essere più in grado di fornire
cibo a tutti gli abitanti, oppure per improvvise catastrofi, quali una siccità
prolungata, o perché uno sfruttamento eccessivo dell’ambiente l’ha impoverita.
Quando vengono a mancare terre e
cibo, una parte della popolazione si sposta, come fecero i Greci nell’Età
Antica. Altre popolazioni lasciano invece la propria terra perché scacciate da
un popolo più forte. In società più complesse, un gruppo può essere costretto a
lasciare la propria terra, o scegliere di farlo, perché perseguitato per motivi
politici o religiosi, come accadde ai puritani inglesi nel XVII secolo o agli
anabattisti (protestanti) che lasciarono l’Europa orientale per stabilirsi in
America tra l’Ottocento e il Novecento.
La Mayflower, la nave che portò i puritani inglesi in America nel 1620,
nella ricostruzione conservata nel porto di Plymouth (Massachusetts)
Quando sulla Terra vivevano pochi
gruppi umani, le migrazioni potevano avvenire senza creare contrasti. Quando
però l’intero pianeta fu popolato, i popoli che si spostavano cercavano nuove
terre in regioni già abitate e questo causò spesso conflitti e guerre. Al
termine di questi scontri uno dei due popoli poteva essere sottomesso, come
accadde agli abitanti originari dell’India dopo l’invasione degli Arii (II
millennio a.C.), o sterminato, come i Tasmaniani dopo l’arrivo degli europei in
Oceania, oppure poteva verificarsi nel tempo una mescolanza di popolazioni, per
cui si formava un nuovo popolo, con caratteristiche di entrambi i gruppi.
Cartolina del 1907 con 4 donne tasmaniane
Le migrazioni umane nel corso
della storia furono innumerevoli e portarono a continue mescolanze di popoli. È
impossibile anche solo elencarle tutte, perciò vediamo soltanto quelle che
hanno modificato più profondamente la distribuzione della specie umana sulla
Terra.
Dal XVI secolo in poi cominciò
una rapida espansione delle popolazioni europee in America e poi, nei secoli
successivi, in Africa, Asia e Australia. Tali migrazioni furono determinate
soprattutto dall’aumento di popolazione in Europa e furono rese possibili dal
possesso di una tecnologia avanzata, che permise di sottomettere le popolazioni
originarie.
Lo spostamento di popolazione fu
fortissimo soprattutto nell’Ottocento, verso l’America, dove si diressero
decine di milioni di europei (oltre 25 milioni solo negli Stati Uniti tra il
1861 ed il 1910), ma anche in Africa (oltre un milione di francesi solo in Algeria),
in Asia e in Australia.
Illustrazione della battaglia della Smala (1843) tra esercito francese
e resistenti algerini
La conquista e le migrazioni
portarono allo sterminio delle popolazioni locali in vaste aree dell’America,
soprattutto settentrionale e sud-orientale, e in Australia: qui la larga
maggioranza della popolazione è oggi di origine europea. In alcune aree, in
particolare nell’America centrale, si ebbe invece una forte mescolanza di razze
ed oggi la popolazione del Messico è costituita in maggioranza da meticci
(incroci tra europei e amerindi). Diversa la situazione in Asia e in Africa,
dove oggi la presenza di europei è più ridotta e limitata ad alcune aree, quali
il Sudafrica e l’Asia settentrionale (Russia asiatica e Kazakistan): mentre
nell’Africa meridionale l’immigrazione europea si verificò soprattutto tra il
Settecento e l’Ottocento, nell’Asia settentrionale essa è un fenomeno più
recente, che ha raggiunto il culmine nel Novecento.
Bambini di discendenza maya in Messico
In America il rapido declino
della popolazione indigena, dovuto alle malattie portate dagli europei, alle
guerre, allo sfruttamento spietato, privò i coloni europei della manodopera
necessaria per il lavoro nelle miniere e nelle piantagioni. Gli europei
cominciarono perciò a procurarsi schiavi neri in Africa e a portarli in
America: almeno dieci milioni di africani vennero portati in catene a lavorare
nelle colonie spagnole, portoghesi, francesi, inglesi e olandesi del Nuovo
Continente.
La tratta dei neri, come viene
chiamato il commercio di schiavi africani, devastò vaste regioni dell’Africa,
frenandone l’aumento demografico, e provocò una nuova mescolanza di popolazioni
in America. Qui i neri di origine africana sono oggi numerosi lungo la costa
dell’oceano Atlantico e costituiscono la maggioranza della popolazione in molte
isole delle Antille, un tempo occupate da piantagioni in cui lavoravano come
schiavi.
Scuola ad Haiti, con insegnanti e alunni di origine africana
Nel corso degli ultimi secoli vi
fu anche una migrazione molto intensa di cinesi, che lasciarono il loro paese,
sovrappopolato, dirigendosi verso altri paesi asiatici (Malesia, Indonesia,
Tailandia, Cambogia, Vietnam, Myanmar, Filippine) e verso l’America; oggi a
Singapore i cinesi costituiscono la maggioranza della popolazione e negli Stati
Uniti e in Canada (a New York, a San Francisco, a Vancouver) esistono estese
Chinatown (letteralmente: città cinesi), quartieri in cui si concentrano le
famiglie di origine cinese. Meno numerosi invece gli immigrati giapponesi,
presenti oggi in alcuni Stati dell’America, tra cui gli Stati Uniti.
La Dragon’s Gate di San Francisco (Usa), la porta d’ingresso a Chinatown
Anche dall’India, nel periodo di
dominio coloniale inglese, vi fu una consistente emigrazione diretta verso
altre colonie inglesi, soprattutto in Africa (Sudafrica, Zambia, Kenya,
Tanzania), dove gli indiani formano ancora oggi una classe media di commercianti,
e nel Suriname (America meridionale) e nelle isole Figi (Oceania): in questi
due ultimi stati gli abitanti di origine indiana costituiscono attualmente
circa il 37% della popolazione.
Raccoglitore di canna da zucchero di origine indiana nelle isole Fiji
Dopo la seconda guerra mondiale e
per tutta la seconda metà del XX secolo nuove migrazioni si sono verificate in
tutto il mondo. Le cause, oltre a quella di trovare migliori condizioni
economiche, sono state le più diverse: tra esse ha avuto grande importanza il
cambiamento dei confini statali e la creazione di nuove nazioni, due fenomeni
frequenti dopo ogni conflitto. Ad esempio, dopo la sconfitta della Germania
nazista e il ritorno alla Polonia e all’Unione Sovietica dei territori che essa
aveva occupato nell’Europa orientale, dieci milioni di tedeschi dovettero
lasciare le loro case. O, per fare un altro esempio, nel 1947-1948, in seguito
alla divisione dell’India britannica in due Stati, l’India, a maggioranza
induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana, sedici milioni di persone si
spostarono da uno Stato all’altro.
Rifugiati musulmani lasciano l’India alla volta del Pakistan nel
settembre 1947
Le guerre, ovviamente, sono alla
base di massicce emigrazioni, poiché la popolazione fugge non solo dalla
povertà ma anche dalla violenza. La guerra civile che devastò l’Angola dal 1975
al 2002 ha generato più di 4 milioni di sfollati all’interno del paese. Alla
fine degli anni Settanta la Somalia venne insanguinata da una guerra civile che
oppose organizzazioni di guerriglia al generale Siad Barre al potere in seguito
a un colpo di stato militare: moltissimi abitanti emigrarono verso l’Europa e
il Sudafrica. Nel 1994 il genocidio avvenuto in Ruanda tra le due etnie Hutu e
Tutsi provocò 800.000 morti e altrettanti profughi. Questi sono soltanto alcuni
esempi dell’emigrazione dovuta a una guerra.
Rifugiati ruandesi al confine con la Tanzania nel maggio 1994
Tutte le guerre provocano la fuga
di una parte della popolazione, soprattutto se vengono combattute su un’area
molto vasta e durano a lungo. I profughi, cioè coloro che fuggono da un paese
devastato dalla guerra, cercano rifugio (per questo sono chiamati anche
rifugiati) in altri Stati, di solito quelli più vicini; e poiché i conflitti
sono più frequenti nei paesi del Terzo Mondo, la maggioranza dei profughi va a
vivere in Stati altrettanto poveri di quelli di provenienza e spesso sono
costretti a vivere in accampamenti privi dei servizi essenziali o in altre
sistemazioni precarie. A volte la povertà nei paesi ospitanti è tale, che la
gente del posto “invidia” i profughi, i quali ricevono gli aiuti internazionali
ed hanno almeno un pasto al giorno.
Profughi vietnamiti arrivano in Australia nel 1977 in battello; per
questo furono chiamati boat-people
Un caso tristemente famoso è
quello degli 860.000 rifugiati palestinesi, costretti tra il 1948 e il 1950 ad
abbandonare le proprie terre occupate da Israele e a trasferirsi in campi
profughi gestiti dall’ONU.
Anche quando un paese è sotto un
regime dittatoriale molti sono costretti a fuggire per evitare dure condanne o
anche la morte: dopo il colpo di stato in Cile (1973) 150.000 cileni lasciarono
il loro paese.
Nel 1951 l’ONU ha dato vita a un
trattato (Convenzione di Ginevra), che stabilisce che chiunque sia perseguitato
nel proprio paese e rischi la vita ha diritto ad essere considerato rifugiato e
a ricevere asilo politico in qualunque Stato. L’agenzia che si occupa dei rifugiati
nel mondo si chiama Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(UNHCR = United Nations High Commissioner for Refugees), ha sede a Ginevra e ha
vinto due volte il premio Nobel per la Pace, nel 1954 e nel 1981.
La sede dell’UNHCR a Ginevra (Svizzera)
Nuove massicce migrazioni
continuano a interessare tutto il pianeta anche nel Terzo millennio: gli
spostamenti – come accade ormai da alcuni decenni – avvengono soprattutto dal
sud del mondo (dove si trovano i paesi più poveri) al nord. Questo fenomeno
dipende dalle condizioni di miseria in cui vive la popolazione di moltissimi
Stati africani, asiatici e latino-americani: miseria dovuta a carestie, guerre
spesso civili, causate da odio etnico, integralismi di tipo politico o
religioso. In Afghanistan la guerra ha fatto fuggire 1 abitante su 3; nel Sudan
i neri delle regioni meridionali riescono a tornare nei loro villaggi, ma la
persecuzione si è sviluppata nel Darfur occidentale; in Liberia un terzo della
popolazione ha abbandonato il paese. Anche in Europa le guerre seguite alla
dissoluzione della ex-Jugoslavia hanno causato milioni di profughi bosniaci,
kosovari, serbi, croati, e solo una parte di essi ha potuto tornare nelle
proprie case.
Campo profughi nel Darfur (Sudan) nel 2014
Quanto la guerra influisca nello
spingere un individuo a emigrare è dimostrato dal numero di persone che negli
ultimi quarant’anni sono fuggite dal loro paese: erano 2,5 milioni nel 1974,
10,5 milioni nel 1984, 37,5 milioni nel 2005, 59,5 milioni nel 2014, 65,3
milioni nel 2016 (dei quali più di 10 milioni di età inferiore ai 18 anni). E
le guerre continuano a scoppiare con incredibile frequenza; soltanto negli
ultimi 5 anni ne sono scoppiate almeno 15: otto in Africa (Libia, Costa
d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Mali, Nigeria, Repubblica Democratica del
Congo, Sud Sudan e Burundi), sei in Asia (Siria, Iraq, Yemen, Kirghizistan,
Birmania e Pakistan), una in Europa (Ucraina).
Campo profughi siriano al confine con la Turchia nel 2013
Se la meta principale di queste
migrazioni è costituita dai Paesi ricchi dell’emisfero settentrionale (Stati
Uniti, Canada, Russia, Europa), uno spostamento consistente si verifica anche
all’interno degli Stati poveri: nei paesi in cui c’è un certo sviluppo
economico e le possibilità di trovare lavoro sono maggiori, ad esempio quelli
in cui lo sfruttamento di giacimenti di petrolio ha creato una richiesta di
manodopera, vi è una forte immigrazione dagli Stati vicini. Sono così divenuti
meta di immigrazione paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il
Kuwait in Asia, la Nigeria in Africa, il Venezuela in America latina.
Impianti per l’estrazione petrolifera in Venezuela: l’estrazione
petrolifera è la principale voce dell’economia venezuelana ed ha attirato una
forte immigrazione
Secondo un rapporto delle Nazioni
Unite del 2005 (aggiornato in parte al 2013) vi sono oggi nel mondo 232 milioni
di emigrati: i 10 paesi con più immigrati sono gli Stati Uniti (circa 45
milioni), Russia (più di 11 milioni), Germania (quasi 10 milioni), Arabia
Saudita (circa 9 milioni), Emirati Arabi Uniti e Regno Unito (quasi 8 milioni),
Francia (circa 7 milioni e mezzo), Canada (più di 7 milioni), Australia e
Spagna (circa 6 milioni e mezzo). Secondo altre fonti nel 2015 gli immigrati
nel mondo erano 244 milioni, con un aumento dall’anno 2.000 del 41%.
Le migrazioni attuali coinvolgono
quasi tutti gli Stati e interessano non soltanto lavoratori maschi poco
specializzati, come accadeva in passato, ma anche donne povere e giovani
qualificati. Questi migrano anche tra Stati ricchi: il fenomeno interessa
tecnici e scienziati che si spostano in particolare dall’Europa agli USA.
Alcune di queste migrazioni sono
definitive: persone o nuclei familiari si stabiliscono in un paese che li
accoglie, in cui cercano di integrarsi, magari conservando ancora per qualche
tempo un legame con il paese d’origine. Altre migrazioni sono provvisorie:
molti lavoratori contano di ritornare al paese d’origine dopo aver guadagnato
abbastanza per avviare un’attività in proprio. Ugualmente profughi e rifugiati
politici preferiscono ritornare in patria, se la situazione lo permette. È però
impossibile distinguere tra migrazioni definitive e provvisorie: molti partono
con l’intenzione di ritornare al proprio paese, ma cambiano idea dopo un certo
numero di anni di permanenza all’estero; altri invece partono decisi a
stabilirsi definitivamente altrove, ma non trovano condizioni di lavoro o di
vita soddisfacenti e ritornano in patria.
Immigrati impiegati nella raccolta di zucche negli stati Uniti
Le migrazioni hanno notevoli
conseguenze sulle popolazioni e sulle economie dei paesi interessati sia dalle
partenze sia dagli arrivi dei migranti. In quelli economicamente sviluppati,
per esempio, l’arrivo degli immigrati ha compensato il calo della popolazione
(causato dalla diminuzione delle nascite) determinando un lieve incremento
degli abitanti. I lavoratori immigrati colmano anche il vuoto dovuto alla
diminuzione di giovani in età lavorativa e contribuiscono a mantenere in
equilibrio i sistemi pensionistici. Nei paesi poveri l’emigrazione da un lato
priva la popolazione dei suoi abitanti più giovani e istruiti, dall’altro
consente ogni anno l’afflusso di decine di miliardi di dollari grazie alle
rimesse, somme di denaro che gli emigranti inviano nel loro paese d’origine.
Svariati sono i problemi che
incontrano gli immigrati: talvolta l’integrazione viene realizzata senza
eccessivi problemi. Generalmente, però, dove gli immigrati sono numerosi si
possono avere reazioni di intolleranza da parte della popolazione locale, in
particolare nei periodi di crisi economica, quando la disoccupazione è maggiore
e gli immigrati vengono accusati di sottrarre il posto di lavoro ai cittadini
dello stato che li ospita.
Migranti pachistani in Grecia
Tali reazioni si manifestano
tanto più facilmente quanto più profonde sono le differenze tra gli immigrati e
la popolazione autoctona: questa infatti teme a volte la perdita della propria
identità culturale, ha paura che venga messa in pericolo la convivenza sociale,
accusa gli immigrati di accettare salari bassissimi per lavori che essa non
vuole più svolgere.
A volte i migranti possono finire
nelle mani di organizzazioni criminali, che gestiscono vere e proprie tratte di
esseri umani. I migranti sono imbarcati, dopo aver pagato cifre altissime, per
viaggi molto pericolosi, durante i quali il rischio di morire è frequente: il
mar Mediterraneo ha visto annegare migliaia di migranti che cercavano di
raggiungere l’Europa.
Barcone di migranti nel mar Mediterraneo (2014)
Una volta arrivati a
destinazione, i migranti incontrano altre difficoltà: spesso si trovano nella
condizione di clandestini, sono cioè privi di un regolare permesso di soggiorno
che consenta loro di vivere e di lavorare nel paese in cui sono giunti. La
condizione di clandestinità produce una serie di tragiche conseguenze: i
migranti sono costretti infatti ad accettare condizioni di lavoro pesantissime,
lavorando in nero, cioè senza regolare contratto e senza alcuna tutela. Da
questa situazione traggono spesso vantaggio i datori di lavoro, che non pagano
tasse e contributi sul lavoro dei clandestini.
I problemi sollevati dalla
crescente immigrazione nei paesi ricchi sono enormi e la politica non è in
grado al momento di affrontarli; anzi, in molti Stati (in Europa e negli Stati
Uniti) stanno crescendo i partiti politici che, anziché cercare di risolvere
concretamente tali problemi, traggono vantaggio elettorale incentivando le
paure – spesso infondate – dei cittadini comuni. Molti muri sono stati
innalzati negli ultimi anni contro migranti, profughi e rifugiati; ma nessun
muro è in grado di fermare una persona che fugge dalla violenza e dalla
miseria.
Gente sul lato messicano della recinzione (the fence) tra Usa e Messico
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