mercoledì 30 marzo 2016

45 L'uomo e l'ambiente: distruzione e conservazione

L’UOMO E L’AMBIENTE: DISTRUZIONE E CONSERVAZIONE

Ogni specie vegetale o animale vive in un ambiente naturale in cui occupa una nicchia precisa. Anche i primi ominidi vissero in un ambiente specifico, la savana, in cui si dedicavano alla caccia e alla raccolta. Il loro numero era limitato dagli stessi fattori che limitavano le altre specie viventi: la disponibilità di cibo e di acqua, la presenza di predatori, le condizioni climatiche. Con il procedere dell’evoluzione umana però, lo sviluppo sempre maggiore del cervello mise gli uomini in grado di fabbricare e utilizzare strumenti sempre più efficaci, perciò le loro possibilità di sopravvivere aumentarono. Essi si adattarono a nuovi ambienti, poiché avevano imparato a utilizzare il fuoco per riscaldarsi e gli abiti per coprirsi nei climi più freddi, ma cominciarono anche a trasformare l’ambiente in cui vivevano, adattandolo alle proprie esigenze.
Fino al Neolitico gli interventi dell’uomo sull’ambiente ebbero conseguenze quasi sempre minime; con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, invece, ebbe inizio una trasformazione dell’ambiente di dimensioni maggiori, perché alcune specie animali e vegetali sostituirono le altre, prima su aree ridotte, in seguito sempre più vaste. Nel corso dei millenni successivi e soprattutto nelle regioni più densamente popolate, il paesaggio mutò radicalmente: in particolare in Europa e in Asia orientale il manto forestale venne fortemente ridotto e l’habitat di molte specie viventi si restrinse a tal punto da provocarne la scomparsa (ma questo avvenne anche in altre aree del pianeta, ad esempio la Nuova Zelanda, dove l’arrivo dei Maori – una popolazione polinesiana – portò all’estinzione numerose specie animali).

Veduta aerea della campagna filippina (nella regione Negros Occidental), dove i campi coltivati hanno progressivamente sostituito le foreste

Il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente esiste dunque da millenni, ma negli ultimi 250 anni la distruzione dell’ambiente è avvenuta con un ritmo talmente sostenuto, da divenire un fenomeno planetario, che mette in discussione la stessa sopravvivenza della specie umana. Tale aggravarsi del problema dipende soprattutto da due fenomeni:
- il continuo aumento della popolazione, reso possibile dall’introduzione di nuove tecnologie agricole e dai progressi della medicina e dell’igiene
- lo sviluppo delle industrie, avviato in Inghilterra nel XVIII secolo.
L’incremento demografico, oggi particolarmente rapido nel Terzo Mondo, provoca una continua richiesta di nuove terre coltivabili, nuovi pascoli per gli animali da allevamento, nuove aree di pesca, nuovi spazi per le città in espansione: di conseguenza foreste, savane e steppe scompaiono sempre più rapidamente.

Folla, traffico e smog a Kampala, capitale dell’Uganda: l’incremento demografico in alcuni Stati africani sta creando città sempre più caotiche e inquinate

La diffusione delle industrie, che oltre ai paesi più ricchi sta riguardando sempre più anche Stati fino a pochi anni fa considerati ai margini dell’economia mondiale, è una delle principali cause del moltiplicarsi dei fenomeni di inquinamento, del consumo sempre più massiccio delle materie prime e delle risorse energetiche non rinnovabili (quali il petrolio) ma anche di quelle rinnovabili come l’acqua (oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua) e della produzione in vertiginosa crescita di rifiuti e materiale di scarto, anche estremamente nocivo.

Zona mineraria a Jalainur (distretto della Mongolia Interna, in Cina): è evidente come la natura sia scomparsa da questo ambiente

Oggi il problema dei rapporti tra l’uomo e l’ambiente naturale è assai complesso, perché sono moltissime le attività umane capaci di provocare un’alterazione dell’ambiente e perché queste alterazioni non riguardano soltanto l’area in cui hanno origine, ma hanno ripercussioni in tutto il pianeta. Ad esempio la circolazione dell’aria e il ciclo dell’acqua trasportano ovunque le sostanze inquinanti, infatti si è scoperto che persino nella disabitata Groenlandia l’atmosfera contiene tracce di diversi veleni, provenienti dalle industrie dei Paesi sviluppati.
L’inquinamento, inoltre, è un problema assai grave, perché esistono Stati in cui lo sviluppo economico avviene in mancanza di leggi che limitino l’emissione di sostanze inquinanti: molti Stati in via di sviluppo, pur di garantirsi un’economia più competitiva e pur di non dipendere continuamente dai Paesi più ricchi, non impongono norme severe agli industriali che aprono nuovi stabilimenti. Del resto molte industrie multinazionali trasferiscono nei paesi poveri i loro rifiuti più inquinanti e fanno eseguire le lavorazioni più pericolose proprio in quei Paesi nei quali mancano leggi severe a protezione dell’ambiente, o dell’uomo stesso e della sua salute (spesso, infatti, in questi paesi si verificano catastrofi ecologiche, che peggiorano ulteriormente le condizioni di vita degli abitanti).

Proteste nel 2014 contro la ditta responsabile del disastro che nel 1984 si verificò a Bhopal (India), dove una nube tossica fuoriuscita da un’industria chimica provocò la morte di 2.259 persone e ne avvelenò o rese cieche decina di migliaia d’altre

L’inquinamento non dipende soltanto dalle industrie: esso è provocato anche dall’uso di combustibili fossili, quali il carbone e il petrolio, per il riscaldamento e per i trasporti; perciò il continuo aumento del traffico automobilistico è una delle cause principali dell’aggravarsi del fenomeno. Ma anche il ricorso al nucleare (come si è detto nella lezione LE FONTI DI ENERGIA) non è esente da conseguenze nell’ambiente naturale.
La distruzione dell’ambiente naturale non avviene solo per l’introduzione di sostanze tossiche nell’aria, nell’acqua e nel suolo. Gli uomini alterano l’equilibrio naturale e provocano la scomparsa di molte specie viventi anche introducendo nuove specie animali e vegetali a danno di quelle autoctone, cioè originarie del luogo. Dal Neolitico in poi gli uomini hanno introdotto in aree sempre più vaste le piante coltivate e gli animali allevati, riducendo l’habitat delle specie selvatiche: animali come i bovini domestici, le pecore, le capre, i maiali, i cavalli, e piante come il grano, il mais e il riso si ritrovano ormai in tutti i continenti e hanno sostituito le specie caratteristiche della foresta, della savana e della steppa. Altre introduzioni sono invece avvenute in conseguenza degli spostamenti umani, ma senza che ve ne fosse l’intenzione, come nel caso di animali che vivono a contatto con l’uomo, ad esempio i topi, e di molti parassiti, ad esempio i bacilli responsabili di malattie quali la peste o il colera, si diffusero in tutto il mondo grazie agli scambi commerciali. In un nuovo ambiente una specie può diffondersi e divenire molto numerosa, alterando profondamente l’equilibrio naturale, come è avvenuto in Australia nel XIX secolo con i conigli, i quali, introdotti dai contadini perché potevano essere facilmente allevati nelle praterie di quel Paese, si moltiplicarono fino a diventare un problema per l’economia australiana e per molte specie originarie.

Un cartello australiano illustra la grande recinzione costruita per difendersi dalla proliferazione dei conigli

Tutti questi interventi hanno provocato una riduzione dell’habitat di molte piante e animali, i cui effetti si combinano con le conseguenze della caccia e della pesca nel determinare la scomparsa di numerose specie: la fauna e la flora della terra si stanno impoverendo progressivamente e addirittura alcune soluzioni adottate per evitare i danni provocati all’ambiente si sono rivelate fallimentari (è del febbraio 2016 la notizia che il rimboschimento effettuato in Europa negli ultimi 150 anni con conifere al posto delle autoctone latifoglie abbia contribuito all’aumento dell’effetto serra, anziché alla sua riduzione).
Proprio perché la consapevolezza dei danni che l’uomo sta provocando all’ambiente è in aumento, in tutto il mondo esistono associazioni che si occupano dei problemi ambientali e cercano di fare pressione sui governi, affinché prendano provvedimenti a difesa dell’ambiente naturale e delle specie minacciate. Alcune associazioni, come il World Wide Fund For Nature (o World Wildlife Fund come si chiamava quando nacque nel 1961; per capirci, il WWF) o Greenpeace, operano su scala internazionale, anche perché si occupano di problemi (la distruzione della foresta amazzonica, il buco nell’ozono, i test nucleari) che interessano tutta l’umanità.

Specie a rischia di estinzione, minacciata dall’impoverimento dell’habitat in cui vive, il panda è divenuto uno dei simboli della protezione ambientale

Altre associazioni si occupano di singole tematiche, ad esempio la caccia, i diritti degli animali, la riforestazione in zone determinate e così via. Per operare tutte queste associazioni hanno bisogno di fondi, che raccolgono attraversano le quote di iscrizione pagate dai soci, o grazie a sovvenzioni di alcuni organismi, o ancora attraverso scelte determinate da alcuni governi (come il cosiddetto 5‰ in Italia). La loro azione ha contribuito ad estendere la superficie protetta sul nostro pianeta, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, ed oggi, anche se mancano dati sicuri, si può dire che circa il 4% delle terre emerse (il 10% in Italia) è in qualche modo tutelato.
Molti governi sono coscienti della necessità di difendere l’ambiente naturale, ma non sempre sono in grado di prendere i provvedimenti necessari per evitare il degrado ambientale, anche in Paesi sviluppati come l’Italia, dove periodicamente si assiste a catastrofi (alluvioni, frane e simili) che nascono proprio dalla inefficacia o dalla superficialità dei provvedimenti.

Una drammatica immagine dell’alluvione che nel 2011 devastò una vasta area tra Liguria e Toscana (Italia)

Nei Paesi del Terzo Mondo il continuo aumento di popolazione porta alla ricerca di nuove terre a danno degli ultimi lembi di ambiente naturale e mancano i fondi e la volontà politica per interventi efficaci. Il disboscamento dell’Amazzonia, ad esempio, potrebbe essere evitato se il governo brasiliano fosse in grado di realizzare un’adeguata riforma agraria, distribuendo terre coltivabili ai contadini senza terre; il tentativo di una riforma agraria c’è stato, ma ha incontrato continue e forti opposizioni da parte dei grandi proprietari terrieri, che hanno un grande potere, tale da rovesciare il governo stesso.
Ciò nonostante alcuni di questi paesi hanno compiuto notevoli sforzi per realizzare una protezione almeno parziale del territorio nazionale, creando parchi naturali che possono anche costituire una notevole fonte di reddito, come succede in Africa per i parchi del Kenya (Amboseli) e della Tanzania (Serengeti, Ngorongoro), visitati da molti turisti.

Turisti nel Parco Nazionale del Tarangire (Tanzania)

Nei paesi ricchi l’esigenza di proteggere l’ambiente è ormai avvertita da una parte consistente della popolazione, perciò qui l’azione delle associazioni ambientaliste è più efficace. Tuttavia è ancora forte l’opposizione di gruppi di interesse (o lobbies, plurale di lobby), che temono di rimanere danneggiati: molte leggi varate a difesa dell’ambiente si scontrano perciò con l’opposizione di settori più o meno consistenti della popolazione, quali gli industriali o i cacciatori, i petrolieri o le società edilizie. Molti di questi paesi hanno comunque emanato leggi severe sull’inquinamento e sull’uso del territorio e tutti hanno creato una rete di parchi, più o meno estesa.
Di fronte alla gravità del problema ambientale diversi governi hanno cercato di stabilire accordi internazionali per unire gli sforzi alla ricerca di una soluzione comune. Conferenze a cui hanno partecipato i rappresentanti di quasi tutti gli stati, a partire da quello di Stoccolma del 1972, hanno gettato le basi per una cooperazione internazionale, indispensabile per un’efficace difesa dell’ambiente naturale. Uno degli accordi più importanti è la Convenzione sul commercio internazionale delle specie in via d’estinzione (Cites): grazie a questo accordo non è più possibile trasportare da un paese all’altro animali rari vivi, ad esempio destinati a uno zoo o a un circo, o parti di questi animali, ad esempio la pelliccia o l’avorio delle zanne o del corno. Attualmente gli Stati che hanno firmato questa Convenzione sono 182 (quasi tutti i paesi del mondo) e anche se questa proibizione non ha eliminato il bracconaggio e il commercio illegale, ha comunque ridotto i pericoli che corrono alcune delle specie più minacciate.
Alcuni paesi però non aderiscono a questi accordi, per motivi economici o di prestigio: il Giappone, la Norvegia e l’Islanda si sono a lungo opposti agli accordi per limitare la caccia alle balene, così come la Francia soltanto nel 1996 ha smesso di effettuare esperimenti nucleari nell’oceano Pacifico.

Lavori di sperimentazione nucleare nel 1990 nella Polinesia francese


lunedì 29 febbraio 2016

44 Il pianeta Terra - Le foreste equatoriali

LE FORESTE EQUATORIALI

In quelle aree della regione equatoriale (o intertropicale, cioè compresa tra i tropici) in cui le temperature sono sempre alte (con medie mensili tra i 24° ed i 28°) e le precipitazioni sono abbondanti (con valori tra i 2.000 e i 3.000 mm annui) e distribuite in modo abbastanza uniforme nel corso dell’anno, sono presenti le foreste pluviali equatoriali, chiamate anche foreste tropicali.
Esse si estendono soprattutto nell’Asia sud-orientale, in Africa nel bacino del fiume Congo (che scorre in gran parte nella Repubblica Democratica del Congo e per un tratto minore nella Repubblica del Congo) e in America meridionale nel bacino del Rio delle Amazzoni.

La foresta pluviale (nella foto quella della Repubblica Democratica del Congo) è spesso sovrastata da uno strato nebbioso dovuto alle abbondanti precipitazioni

La foresta pluviale presenta la maggior varietà di specie vegetali esistenti al mondo e la vegetazione, particolarmente densa, è disposta su strati diversi. Quello più alto è formato dalla chioma degli alberi più grandi, che superano i 60 metri ed emergono dalla volta, costituita dalla chioma del secondo strato di alberi. Un terzo strato di alberi è formato da piante di dimensioni inferiori, che rimangono al di sotto della volta principale e le cui chiome hanno spesso una forma più allungata. Più vicino al suolo si trovano gli esemplari giovani degli alberi che stanno crescendo, piante erbacee, arbusti (come le felci) e funghi (come quelli scoperti da pochi anni che attaccano alcuni insetti e ne provocano la morte).

Alberi della foresta Amazzonica


Due insetti uccisi dal fungo che fuoriesce dal loro corpo


Nella foresta esistono anche numerose specie vegetali che non si reggono e non si nutrono da sé, ma si appoggiano agli alberi, come le liane e le orchidee, e ne ricavano il nutrimento, giungendo anche a soffocare l’albero a cui sono avvolte, come avviene per le piante strangolatrici. La luce del Sole arriva a stento al suolo, che è ricoperto dalle foglie in decomposizione.

Due diversi tipi di liane

Due diversi tipi di orchidee delle foreste pluviali americane

Piante strangolatrici in Australia (a sinistra) e in Costa Rica

 Le foreste pluviali possono essere sempreverdi, se piove in tutti i mesi, oppure stagionali, se il periodo umido è interrotto da una stagione asciutta. Nelle foreste sempreverdi il tronco degli alberi cresce in continuazione e non vi è una pausa invernale, come avviene nella foresta temperata o in quella boreale. Il fusto di questi alberi non presenta perciò gli anelli tipici dei legni europei, ma costituisce una massa compatta, molto solida: tali legni, come il mogano, il palissandro o l’ebano, sono molto pregiati.

Da sinistra: una pianta di mogano, una di palissandro, una foresta di ebani

Fino all’invenzione delle gomme sintetiche, da alcune piante della foresta pluviale si ricavava il caucciù, ossia la gomma naturale; inizialmente la principale pianta che forniva il caucciù era l’Hevea brasiliensis e per tutto il XIX secolo il Brasile (nel bacino del Rio delle Amazzoni) fu l’unico Stato che forniva questo materiale. Negli ultimi due decenni dell’Ottocento la pianta da cui ottenere il caucciù venne diffusa nel sud-est asiatico, decretando la fine della ricchezza di città brasiliane come Manaus; ma la scoperta (all’incirca dopo la Seconda guerra mondiale) della gomma sintetica, ha portato a una progressiva diminuzione della coltivazione delle piante da caucciù e all’impoverimento di molti Paesi che avevano conosciuto nei decenni precedenti un improvviso e insperato benessere economico.

La raccolta del caucciù da una pianta di Hevea brasiliensis in Malesia

Nelle zone equatoriali vengono coltivate (generalmente in vaste piantagioni) molte specie che danno frutti assai richiesti dai mercati occidentali: banane, ananas, papaia, mango, avocado e altri. Anche la produzione di tuberi, come la manioca, da cui si ricava una farina nutriente, è molto forte. Nelle foreste pluviali molte altre specie vegetali, poco conosciute, sono attualmente oggetto di ricerca a scopo farmaceutico e cosmetico.

Piantagione di banane nell’isola caraibica di Guadalupa (politicamente facente parte della Francia)

Piantagione di ananas in Tailandia

Piantagione di papaia in Perù

Piantagione di mango in Cambogia

Frutti di avocado in Colombia

Raccolto di manioca in Nigeria; attualmente l’Africa è il maggiore produttore di questo tubero

Alla ricchezza delle specie vegetali nella foresta corrisponde la ricchezza delle specie animali.
Si tratta solitamente di animali di piccola taglia, molti dei quali sono adattati a vivere sugli alberi, come le scimmie, i bradipi o i lemuri del Madagascar; nello strato più elevato vi sono moltissimi uccelli (tra cui pappagalli e tucani), tra gli alberi e il suolo vivono numerose specie di rettili (serpenti, iguane, lucertole) e un’estrema varietà d’insetti, batteri e parassiti, che diffondono malattie pericolose per l’uomo, come la malaria e la malattia del sonno (prodotta dalla puntura della mosca tsè tsè).


Da sinistra: aluatta dal mantello in Costa Rica, mandrillo in Nigeria, orango in Malesia

Un bradipo nella foresta Amazzonica brasiliana

Femmina di lemure in Madagascar

Due ara scarlatti in Amazzonia

Tucano in Costa Rica

Anaconda verde nell’Amazzonia peruviana

Boa arboricolo dell’Amazzonia in Perù

Un’iguana verde (o iguana dai tubercoli) nell’Amazzonia brasiliana

Una lucertola della specie Ameiva gigante in Bolivia

Una mosca tsè tsè fotografata nell’Università dell’Oregon (U.S.A.)

Al suolo in certe condizioni (la presenza di un corso d’acqua, o di una radura) si possono trovare anche animali di taglia maggiore, quali alcune specie di elefante e di rinoceronte tra gli erbivori e la tigre tra i carnivori (la tigre è presente solo in Asia). Nei corsi d’acqua vi sono caimani, coccodrilli e moltissimi pesci, tra cui i temibili piranha.

Elefanti nella foresta dell’India meridionale

Un rinoceronte indiano nel Parco nazionale di Chitwan (Nepal)

Una tigre nella giungla indiana

Un coccodrillo nel Daintree National Park (Australia)

Un piranha in uno zoo statunitense

La foresta pluviale è un ambiente difficile per l’uomo: sono pochi i gruppi umani che vi abitano stabilmente, anche perché in passato le popolazioni indigene sono state spesso decimate e disperse dai colonizzatori. Tra quelle superstiti, alcune vivono in modo primitivo: è il caso dei pigmei in Africa e degli indios Yanomami in Amazzonia; questi gruppi non vivono tanto diversamente dalle comunità del Paleolitico, che non conoscevano né agricoltura né allevamento.

A sinistra pigmei Baka in Congo, a destra un gruppo di Yanomami nella foresta Amazzonica

Ciò nonostante le foreste tropicali sono oggi uno degli ambienti più gravemente minacciati dagli interventi umani. Gli alberi vengono abbattuti per ricavarne legname e polpa di legno; il sottosuolo viene scavato alla ricerca di oro, diamanti, ferro e petrolio; i fiumi vengono utilizzati per la realizzazione di enormi centrali idroelettriche; vaste aree vengono interamente disboscate per lasciare spazio alle coltivazioni e al pascolo. Il suolo della foresta è però povero di sostanze nutritive, che sono invece contenute nella vegetazione: infatti la notevole temperatura e l’umidità sono causa di una rapida decomposizione dei materiali organici. Quando la foresta viene abbattuta, le piogge intense erodono lo strato di humus e in pochi anni il terreno diviene improduttivo; vengono allora messe a coltura nuove aree e così la foresta si ritira ad un ritmo impressionante in tutti i continenti. Con il disboscamento procede anche l’estinzione massiccia di specie vegetali e animali, molte delle quali sono ancora poco note.

Deforestazione in Papua Nuova Guinea

43 Il pianeta Terra - I deserti

I DESERTI

Nelle regioni attraversate dai tropici, dove soffiano gli alisei, le precipitazioni sono molto scarse e distribuite in modo irregolare, le temperature diurne sempre alte e l’evaporazione intensa in tutte le stagioni. L’escursione termica annua è limitata, ma quella diurna può raggiungere i 30°, perché la mancanza di vegetazione e l’assenza di nubi provocano una rapida dispersione notturna del calore. Qui pochissime specie vegetali e animali riescono a sopravvivere alla mancanza d’acqua.

Notte nel Sahara marocchino: l’assenza di nubi permette di vedere il cielo stellato in tutto il suo splendore

Questi ambienti, chiamati deserti, si estendono tra i 15° e i 40° di latitudine sia a Nord sia a Sud. Nell’emisfero boreale essi occupano un’area più vasta, che comprende gran parte dell’Africa centro-settentrionale (deserto del Sahara), dell’Asia sud-occidentale (deserto arabico, deserto iraniano e del Thar) e dell’Asia centrale (deserti del Taklamakan e del Gobi) e una parte dell’America occidentale, tra il Messico e gli Stati Uniti.

Dune nel deserto di Taklamakan (Cina)

Nell’emisfero australe essi coprono tutto l’interno dell’Australia, l’Africa sud-occidentale (deserti del Namib e del Kalahari) ed un’area ristretta della costa occidentale dell’America, dove si trova il più arido deserto del mondo, quello di Atacama, tra il Perù e il Cile.

Deserto di Atacama (Cile)

Nei deserti l’erosione è particolarmente forte, come avviene in tutte le aree con scarsa vegetazione: in particolare si tratta di erosione eolica, ossia provocata dal vento, che scaglia granelli di sabbia contro le rocce, frantumandole di continuo nel corso del tempo.

Una bizzarra formazione rocciosa modellata dal vento nel Deserto di Siloli in Bolivia

L’erosione eolica fa sì che nei deserti si possano trovare vaste aree occupate da dune di sabbia, in grado di spostarsi secondo la direzione del vento, il quale può a volte provocare delle tempeste di sabbia, ossia dei vortici di granelli in grado di oscurare il cielo; questo tipo di deserto è chiamato erg e si trova frequentemente nel Sahara.

Tempesta di sabbia nel Sahara egiziano

Vi sono anche deserti con un suolo roccioso (detti hamada) ricoperto da pietrisco aguzzo, a volte con grandi quantità di ghiaia e ciottoli frammisti alla sabbia (chiamati serir).

Un hamada in Marocco

 Un serir in Mauritania

La vegetazione delle aree desertiche è limitata dalla mancanza d’acqua: sono presenti alcune piante, dette effimere, che si sviluppano nei periodi di pioggia e muoiono nei periodi di siccità, lasciando solo i semi che daranno vita a nuovi individui dopo le piogge successive. Queste piante hanno un ciclo vitale molto breve, spesso di sole due settimane, che consente loro di produrre semi prima che l’aridità le uccida.

Piante effimere nel deserto dello Utah (U.S.A.)

Altre piante sono invece perenni e si adattano all’aridità in modi diversi: alcune, come i cactus, hanno il fusto carnoso e rigonfio in modo da immagazzinarvi l’acqua, mentre le foglie sono trasformate in spine, come difesa dagli erbivori, oppure mancano del tutto. Altre piante hanno radici molto estese, che permettono loro di assorbire l’acqua piovana su una grande superficie; altre ancora, come la tamerice ed alcune specie di acacia e di eucalipto, hanno radici molto profonde (fino a 50 metri), per raggiungere gli strati più umidi del terreno. Nelle oasi crescono (coltivate) le piante da datteri, che danno un frutto commestibile sia fresco sia essiccato.

Cactus nella Bassa California (Messico)

Eucalipti nel deserto australiano

Una palma da datteri carica di frutti presso Gerico in Palestina

La scarsità d’acqua limita la diffusione degli animali nei deserti. Le specie presenti si sono adattate a questa situazione e i loro organismi richiedono quantità minime di acqua, perché ne riducono il consumo: ad esempio i mammiferi del deserto non sudano quasi mai, nonostante le alte temperature, evitando così di disperdere grandi quantità d’acqua.
Animali come il cammello e il dromedario sono in grado di sopportare perdite d’acqua molto forti, fino al 30% del loro peso corporeo, mentre un uomo morirebbe dopo aver perso una quantità d’acqua pari al 12-13% del proprio peso. Inoltre questi animali possono immagazzinare grandi quantità d’acqua: il cammello riesce a bere in pochi minuti parecchie decine di litri, recuperando così l’acqua perduta. Molti di questi animali sono notturni, in modo da muoversi nelle ore in cui la temperatura si abbassa, e di giorno si ritirano sotto la sabbia o all’ombra delle rocce.

Cammelli nel Deserto del Gobi (Mongolia)
  
Dromedari nel deserto degli Emirati Arabi Uniti

In queste condizioni sono rari gli animali di grossa taglia, che trovano cibo con più difficoltà: cammelli e dromedari appunto, la gazzella dorcade, l’antilope addax. Sono numerosi gli insetti, altri invertebrati (come gli scorpioni) e in generale animali di piccole dimensioni, come lo sciacallo, il fennec (o volpe del deserto), il suricato, il gerbillo (topo canguro), alcuni tipi di manguste.

Due esemplari di gazzella dorcade in Arabia Saudita
  
Due antilopi addax

Uno scorpione nel Sahara libico

Uno sciacallo in Namibia

Fennec nel Deserto del Kalahari (Botswana)

 Un suricato in Namibia

Un gerbillo in Kazhakistan

Una mangusta gialla in Sudafrica

Come la tundra, il deserto è un ambiente poco alterato dall’uomo, perché inadatto alla vita umana: solo nelle oasi, zone fornite di sorgenti o pozzi e perciò fertili (ma va ricordato che la maggioranza delle oasi sono ambienti artificiali, costruiti dall’uomo attraverso un lungo e difficile lavoro di canalizzazione sotterranea dell’acqua), si possono trovare stabili insediamenti.

Un’oasi nel deserto libico

Il deserto è però anch’esso un ambiente fragile, in cui interventi anche ridotti possono avere conseguenze di ampia portata. È il caso dei campi petroliferi, enormemente aumentati negli ultimi 150 anni, cioè con lo sviluppo della società industriale attuale. Lo sfruttamento delle risorse petrolifere (che è più facile e meno costoso nei deserti, rispetto ad altre regioni) ha trasformato profondamente lo stile di vita e le attività degli uomini del deserto: sono quasi scomparse attività tradizionali come il commercio carovaniero o l’agricoltura nelle oasi. Soprattutto, però, accanto ai pozzi di estrazione si sono sviluppati impianti petrolchimici e oleodotti per il trasporto del petrolio, che hanno provocato l’emissione nell’atmosfera e la dispersione nel suolo di sostanze inquinanti. Inoltre gli enormi interessi legati al petrolio hanno determinato il sorgere di sanguinosi conflitti e hanno arricchito le classi dirigenti di molti Paesi, senza però migliorare di molto le condizioni di vita delle persone comuni.

Pozzo petrolifero nel Bahrein

Pozzo petrolifero in California (U.S.A.)

L’intervento dell’uomo nella steppa e nella savana può favorire l’espansione dei deserti, chiamata desertificazione: se il terreno viene privato della copertura vegetale da un pascolo eccessivo, l’erosione asporta l’humus e la vegetazione non ricresce.

Desertificazione in Vietnam; essa è causata anche dall’uso di sostanze chimiche contro la popolazione durante la guerra del Vietnam

I deserti si espandono anche per fenomeni naturali, quando il clima diventa più arido o le dune di sabbia spinte dal vento coprono aree fertili, distruggendo ogni forma di vita. Aree oggi desertiche, come il Sahara, erano un tempo ricche di piante e di animali, come testimoniato dagli uidian (uadi al singolare), letti asciutti dei fiumi che migliaia di anni fa irrigavano la zona, e dai siti archeologici che hanno conservato tracce di arte rupestre.

L’arte rupestre di siti archeologici come quello di Tadrart Acacus (in Libia) testimonia che una tempo il Sahara era ricco di vegetazione e di specie animali