mercoledì 30 marzo 2016

45 L'uomo e l'ambiente: distruzione e conservazione

L’UOMO E L’AMBIENTE: DISTRUZIONE E CONSERVAZIONE

Ogni specie vegetale o animale vive in un ambiente naturale in cui occupa una nicchia precisa. Anche i primi ominidi vissero in un ambiente specifico, la savana, in cui si dedicavano alla caccia e alla raccolta. Il loro numero era limitato dagli stessi fattori che limitavano le altre specie viventi: la disponibilità di cibo e di acqua, la presenza di predatori, le condizioni climatiche. Con il procedere dell’evoluzione umana però, lo sviluppo sempre maggiore del cervello mise gli uomini in grado di fabbricare e utilizzare strumenti sempre più efficaci, perciò le loro possibilità di sopravvivere aumentarono. Essi si adattarono a nuovi ambienti, poiché avevano imparato a utilizzare il fuoco per riscaldarsi e gli abiti per coprirsi nei climi più freddi, ma cominciarono anche a trasformare l’ambiente in cui vivevano, adattandolo alle proprie esigenze.
Fino al Neolitico gli interventi dell’uomo sull’ambiente ebbero conseguenze quasi sempre minime; con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, invece, ebbe inizio una trasformazione dell’ambiente di dimensioni maggiori, perché alcune specie animali e vegetali sostituirono le altre, prima su aree ridotte, in seguito sempre più vaste. Nel corso dei millenni successivi e soprattutto nelle regioni più densamente popolate, il paesaggio mutò radicalmente: in particolare in Europa e in Asia orientale il manto forestale venne fortemente ridotto e l’habitat di molte specie viventi si restrinse a tal punto da provocarne la scomparsa (ma questo avvenne anche in altre aree del pianeta, ad esempio la Nuova Zelanda, dove l’arrivo dei Maori – una popolazione polinesiana – portò all’estinzione numerose specie animali).

Veduta aerea della campagna filippina (nella regione Negros Occidental), dove i campi coltivati hanno progressivamente sostituito le foreste

Il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente esiste dunque da millenni, ma negli ultimi 250 anni la distruzione dell’ambiente è avvenuta con un ritmo talmente sostenuto, da divenire un fenomeno planetario, che mette in discussione la stessa sopravvivenza della specie umana. Tale aggravarsi del problema dipende soprattutto da due fenomeni:
- il continuo aumento della popolazione, reso possibile dall’introduzione di nuove tecnologie agricole e dai progressi della medicina e dell’igiene
- lo sviluppo delle industrie, avviato in Inghilterra nel XVIII secolo.
L’incremento demografico, oggi particolarmente rapido nel Terzo Mondo, provoca una continua richiesta di nuove terre coltivabili, nuovi pascoli per gli animali da allevamento, nuove aree di pesca, nuovi spazi per le città in espansione: di conseguenza foreste, savane e steppe scompaiono sempre più rapidamente.

Folla, traffico e smog a Kampala, capitale dell’Uganda: l’incremento demografico in alcuni Stati africani sta creando città sempre più caotiche e inquinate

La diffusione delle industrie, che oltre ai paesi più ricchi sta riguardando sempre più anche Stati fino a pochi anni fa considerati ai margini dell’economia mondiale, è una delle principali cause del moltiplicarsi dei fenomeni di inquinamento, del consumo sempre più massiccio delle materie prime e delle risorse energetiche non rinnovabili (quali il petrolio) ma anche di quelle rinnovabili come l’acqua (oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua) e della produzione in vertiginosa crescita di rifiuti e materiale di scarto, anche estremamente nocivo.

Zona mineraria a Jalainur (distretto della Mongolia Interna, in Cina): è evidente come la natura sia scomparsa da questo ambiente

Oggi il problema dei rapporti tra l’uomo e l’ambiente naturale è assai complesso, perché sono moltissime le attività umane capaci di provocare un’alterazione dell’ambiente e perché queste alterazioni non riguardano soltanto l’area in cui hanno origine, ma hanno ripercussioni in tutto il pianeta. Ad esempio la circolazione dell’aria e il ciclo dell’acqua trasportano ovunque le sostanze inquinanti, infatti si è scoperto che persino nella disabitata Groenlandia l’atmosfera contiene tracce di diversi veleni, provenienti dalle industrie dei Paesi sviluppati.
L’inquinamento, inoltre, è un problema assai grave, perché esistono Stati in cui lo sviluppo economico avviene in mancanza di leggi che limitino l’emissione di sostanze inquinanti: molti Stati in via di sviluppo, pur di garantirsi un’economia più competitiva e pur di non dipendere continuamente dai Paesi più ricchi, non impongono norme severe agli industriali che aprono nuovi stabilimenti. Del resto molte industrie multinazionali trasferiscono nei paesi poveri i loro rifiuti più inquinanti e fanno eseguire le lavorazioni più pericolose proprio in quei Paesi nei quali mancano leggi severe a protezione dell’ambiente, o dell’uomo stesso e della sua salute (spesso, infatti, in questi paesi si verificano catastrofi ecologiche, che peggiorano ulteriormente le condizioni di vita degli abitanti).

Proteste nel 2014 contro la ditta responsabile del disastro che nel 1984 si verificò a Bhopal (India), dove una nube tossica fuoriuscita da un’industria chimica provocò la morte di 2.259 persone e ne avvelenò o rese cieche decina di migliaia d’altre

L’inquinamento non dipende soltanto dalle industrie: esso è provocato anche dall’uso di combustibili fossili, quali il carbone e il petrolio, per il riscaldamento e per i trasporti; perciò il continuo aumento del traffico automobilistico è una delle cause principali dell’aggravarsi del fenomeno. Ma anche il ricorso al nucleare (come si è detto nella lezione LE FONTI DI ENERGIA) non è esente da conseguenze nell’ambiente naturale.
La distruzione dell’ambiente naturale non avviene solo per l’introduzione di sostanze tossiche nell’aria, nell’acqua e nel suolo. Gli uomini alterano l’equilibrio naturale e provocano la scomparsa di molte specie viventi anche introducendo nuove specie animali e vegetali a danno di quelle autoctone, cioè originarie del luogo. Dal Neolitico in poi gli uomini hanno introdotto in aree sempre più vaste le piante coltivate e gli animali allevati, riducendo l’habitat delle specie selvatiche: animali come i bovini domestici, le pecore, le capre, i maiali, i cavalli, e piante come il grano, il mais e il riso si ritrovano ormai in tutti i continenti e hanno sostituito le specie caratteristiche della foresta, della savana e della steppa. Altre introduzioni sono invece avvenute in conseguenza degli spostamenti umani, ma senza che ve ne fosse l’intenzione, come nel caso di animali che vivono a contatto con l’uomo, ad esempio i topi, e di molti parassiti, ad esempio i bacilli responsabili di malattie quali la peste o il colera, si diffusero in tutto il mondo grazie agli scambi commerciali. In un nuovo ambiente una specie può diffondersi e divenire molto numerosa, alterando profondamente l’equilibrio naturale, come è avvenuto in Australia nel XIX secolo con i conigli, i quali, introdotti dai contadini perché potevano essere facilmente allevati nelle praterie di quel Paese, si moltiplicarono fino a diventare un problema per l’economia australiana e per molte specie originarie.

Un cartello australiano illustra la grande recinzione costruita per difendersi dalla proliferazione dei conigli

Tutti questi interventi hanno provocato una riduzione dell’habitat di molte piante e animali, i cui effetti si combinano con le conseguenze della caccia e della pesca nel determinare la scomparsa di numerose specie: la fauna e la flora della terra si stanno impoverendo progressivamente e addirittura alcune soluzioni adottate per evitare i danni provocati all’ambiente si sono rivelate fallimentari (è del febbraio 2016 la notizia che il rimboschimento effettuato in Europa negli ultimi 150 anni con conifere al posto delle autoctone latifoglie abbia contribuito all’aumento dell’effetto serra, anziché alla sua riduzione).
Proprio perché la consapevolezza dei danni che l’uomo sta provocando all’ambiente è in aumento, in tutto il mondo esistono associazioni che si occupano dei problemi ambientali e cercano di fare pressione sui governi, affinché prendano provvedimenti a difesa dell’ambiente naturale e delle specie minacciate. Alcune associazioni, come il World Wide Fund For Nature (o World Wildlife Fund come si chiamava quando nacque nel 1961; per capirci, il WWF) o Greenpeace, operano su scala internazionale, anche perché si occupano di problemi (la distruzione della foresta amazzonica, il buco nell’ozono, i test nucleari) che interessano tutta l’umanità.

Specie a rischia di estinzione, minacciata dall’impoverimento dell’habitat in cui vive, il panda è divenuto uno dei simboli della protezione ambientale

Altre associazioni si occupano di singole tematiche, ad esempio la caccia, i diritti degli animali, la riforestazione in zone determinate e così via. Per operare tutte queste associazioni hanno bisogno di fondi, che raccolgono attraversano le quote di iscrizione pagate dai soci, o grazie a sovvenzioni di alcuni organismi, o ancora attraverso scelte determinate da alcuni governi (come il cosiddetto 5‰ in Italia). La loro azione ha contribuito ad estendere la superficie protetta sul nostro pianeta, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, ed oggi, anche se mancano dati sicuri, si può dire che circa il 4% delle terre emerse (il 10% in Italia) è in qualche modo tutelato.
Molti governi sono coscienti della necessità di difendere l’ambiente naturale, ma non sempre sono in grado di prendere i provvedimenti necessari per evitare il degrado ambientale, anche in Paesi sviluppati come l’Italia, dove periodicamente si assiste a catastrofi (alluvioni, frane e simili) che nascono proprio dalla inefficacia o dalla superficialità dei provvedimenti.

Una drammatica immagine dell’alluvione che nel 2011 devastò una vasta area tra Liguria e Toscana (Italia)

Nei Paesi del Terzo Mondo il continuo aumento di popolazione porta alla ricerca di nuove terre a danno degli ultimi lembi di ambiente naturale e mancano i fondi e la volontà politica per interventi efficaci. Il disboscamento dell’Amazzonia, ad esempio, potrebbe essere evitato se il governo brasiliano fosse in grado di realizzare un’adeguata riforma agraria, distribuendo terre coltivabili ai contadini senza terre; il tentativo di una riforma agraria c’è stato, ma ha incontrato continue e forti opposizioni da parte dei grandi proprietari terrieri, che hanno un grande potere, tale da rovesciare il governo stesso.
Ciò nonostante alcuni di questi paesi hanno compiuto notevoli sforzi per realizzare una protezione almeno parziale del territorio nazionale, creando parchi naturali che possono anche costituire una notevole fonte di reddito, come succede in Africa per i parchi del Kenya (Amboseli) e della Tanzania (Serengeti, Ngorongoro), visitati da molti turisti.

Turisti nel Parco Nazionale del Tarangire (Tanzania)

Nei paesi ricchi l’esigenza di proteggere l’ambiente è ormai avvertita da una parte consistente della popolazione, perciò qui l’azione delle associazioni ambientaliste è più efficace. Tuttavia è ancora forte l’opposizione di gruppi di interesse (o lobbies, plurale di lobby), che temono di rimanere danneggiati: molte leggi varate a difesa dell’ambiente si scontrano perciò con l’opposizione di settori più o meno consistenti della popolazione, quali gli industriali o i cacciatori, i petrolieri o le società edilizie. Molti di questi paesi hanno comunque emanato leggi severe sull’inquinamento e sull’uso del territorio e tutti hanno creato una rete di parchi, più o meno estesa.
Di fronte alla gravità del problema ambientale diversi governi hanno cercato di stabilire accordi internazionali per unire gli sforzi alla ricerca di una soluzione comune. Conferenze a cui hanno partecipato i rappresentanti di quasi tutti gli stati, a partire da quello di Stoccolma del 1972, hanno gettato le basi per una cooperazione internazionale, indispensabile per un’efficace difesa dell’ambiente naturale. Uno degli accordi più importanti è la Convenzione sul commercio internazionale delle specie in via d’estinzione (Cites): grazie a questo accordo non è più possibile trasportare da un paese all’altro animali rari vivi, ad esempio destinati a uno zoo o a un circo, o parti di questi animali, ad esempio la pelliccia o l’avorio delle zanne o del corno. Attualmente gli Stati che hanno firmato questa Convenzione sono 182 (quasi tutti i paesi del mondo) e anche se questa proibizione non ha eliminato il bracconaggio e il commercio illegale, ha comunque ridotto i pericoli che corrono alcune delle specie più minacciate.
Alcuni paesi però non aderiscono a questi accordi, per motivi economici o di prestigio: il Giappone, la Norvegia e l’Islanda si sono a lungo opposti agli accordi per limitare la caccia alle balene, così come la Francia soltanto nel 1996 ha smesso di effettuare esperimenti nucleari nell’oceano Pacifico.

Lavori di sperimentazione nucleare nel 1990 nella Polinesia francese