L’UOMO E L’AMBIENTE: DISTRUZIONE
E CONSERVAZIONE
Ogni specie vegetale o animale
vive in un ambiente naturale in cui occupa una nicchia precisa. Anche i primi
ominidi vissero in un ambiente specifico, la savana, in cui si dedicavano alla
caccia e alla raccolta. Il loro numero era limitato dagli stessi fattori che
limitavano le altre specie viventi: la disponibilità di cibo e di acqua, la
presenza di predatori, le condizioni climatiche. Con il procedere dell’evoluzione
umana però, lo sviluppo sempre maggiore del cervello mise gli uomini in grado
di fabbricare e utilizzare strumenti sempre più efficaci, perciò le loro
possibilità di sopravvivere aumentarono. Essi si adattarono a nuovi ambienti, poiché
avevano imparato a utilizzare il fuoco per riscaldarsi e gli abiti per coprirsi
nei climi più freddi, ma cominciarono anche a trasformare l’ambiente in cui
vivevano, adattandolo alle proprie esigenze.
Fino al Neolitico gli interventi
dell’uomo sull’ambiente ebbero conseguenze quasi sempre minime; con la
diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, invece, ebbe inizio una
trasformazione dell’ambiente di dimensioni maggiori, perché alcune specie
animali e vegetali sostituirono le altre, prima su aree ridotte, in seguito
sempre più vaste. Nel corso dei millenni successivi e soprattutto nelle regioni
più densamente popolate, il paesaggio mutò radicalmente: in particolare in
Europa e in Asia orientale il manto forestale venne fortemente ridotto e l’habitat
di molte specie viventi si restrinse a tal punto da provocarne la scomparsa (ma
questo avvenne anche in altre aree del pianeta, ad esempio la Nuova Zelanda,
dove l’arrivo dei Maori – una popolazione polinesiana – portò all’estinzione
numerose specie animali).
Veduta aerea della campagna filippina (nella regione Negros Occidental),
dove i campi coltivati hanno progressivamente sostituito le foreste
Il problema del rapporto tra l’uomo
e l’ambiente esiste dunque da millenni, ma negli ultimi 250 anni la distruzione
dell’ambiente è avvenuta con un ritmo talmente sostenuto, da divenire un
fenomeno planetario, che mette in discussione la stessa sopravvivenza della
specie umana. Tale aggravarsi del problema dipende soprattutto da due fenomeni:
- il continuo aumento della
popolazione, reso possibile dall’introduzione di nuove tecnologie agricole e
dai progressi della medicina e dell’igiene
- lo sviluppo delle industrie,
avviato in Inghilterra nel XVIII secolo.
L’incremento demografico, oggi
particolarmente rapido nel Terzo Mondo, provoca una continua richiesta di nuove
terre coltivabili, nuovi pascoli per gli animali da allevamento, nuove aree di
pesca, nuovi spazi per le città in espansione: di conseguenza foreste, savane e
steppe scompaiono sempre più rapidamente.
Folla, traffico e smog a Kampala, capitale dell’Uganda: l’incremento
demografico in alcuni Stati africani sta creando città sempre più caotiche e
inquinate
La diffusione delle industrie,
che oltre ai paesi più ricchi sta riguardando sempre più anche Stati fino a
pochi anni fa considerati ai margini dell’economia mondiale, è una delle
principali cause del moltiplicarsi dei fenomeni di inquinamento, del consumo
sempre più massiccio delle materie prime e delle risorse energetiche non
rinnovabili (quali il petrolio) ma anche di quelle rinnovabili come l’acqua
(oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di
approvvigionamento d’acqua) e della produzione in vertiginosa crescita di
rifiuti e materiale di scarto, anche estremamente nocivo.
Zona mineraria a Jalainur (distretto della Mongolia Interna, in Cina):
è evidente come la natura sia scomparsa da questo ambiente
Oggi il problema dei rapporti tra
l’uomo e l’ambiente naturale è assai complesso, perché sono moltissime le
attività umane capaci di provocare un’alterazione dell’ambiente e perché queste
alterazioni non riguardano soltanto l’area in cui hanno origine, ma hanno
ripercussioni in tutto il pianeta. Ad esempio la circolazione dell’aria e il
ciclo dell’acqua trasportano ovunque le sostanze inquinanti, infatti si è
scoperto che persino nella disabitata Groenlandia l’atmosfera contiene tracce
di diversi veleni, provenienti dalle industrie dei Paesi sviluppati.
L’inquinamento, inoltre, è un
problema assai grave, perché esistono Stati in cui lo sviluppo economico
avviene in mancanza di leggi che limitino l’emissione di sostanze inquinanti:
molti Stati in via di sviluppo, pur di garantirsi un’economia più competitiva e
pur di non dipendere continuamente dai Paesi più ricchi, non impongono norme
severe agli industriali che aprono nuovi stabilimenti. Del resto molte
industrie multinazionali trasferiscono nei paesi poveri i loro rifiuti più
inquinanti e fanno eseguire le lavorazioni più pericolose proprio in quei Paesi
nei quali mancano leggi severe a protezione dell’ambiente, o dell’uomo stesso e
della sua salute (spesso, infatti, in questi paesi si verificano catastrofi
ecologiche, che peggiorano ulteriormente le condizioni di vita degli abitanti).
Proteste nel 2014 contro la ditta responsabile del disastro che nel
1984 si verificò a Bhopal (India), dove una nube tossica fuoriuscita da un’industria
chimica provocò la morte di 2.259 persone e ne avvelenò o rese cieche decina di
migliaia d’altre
L’inquinamento non dipende
soltanto dalle industrie: esso è provocato anche dall’uso di combustibili
fossili, quali il carbone e il petrolio, per il riscaldamento e per i
trasporti; perciò il continuo aumento del traffico automobilistico è una delle
cause principali dell’aggravarsi del fenomeno. Ma anche il ricorso al nucleare
(come si è detto nella lezione LE FONTI DI ENERGIA) non è esente da conseguenze
nell’ambiente naturale.
La distruzione dell’ambiente
naturale non avviene solo per l’introduzione di sostanze tossiche nell’aria,
nell’acqua e nel suolo. Gli uomini alterano l’equilibrio naturale e provocano
la scomparsa di molte specie viventi anche introducendo nuove specie animali e
vegetali a danno di quelle autoctone, cioè originarie del luogo. Dal Neolitico
in poi gli uomini hanno introdotto in aree sempre più vaste le piante coltivate
e gli animali allevati, riducendo l’habitat delle specie selvatiche: animali
come i bovini domestici, le pecore, le capre, i maiali, i cavalli, e piante
come il grano, il mais e il riso si ritrovano ormai in tutti i continenti e
hanno sostituito le specie caratteristiche della foresta, della savana e della
steppa. Altre introduzioni sono invece avvenute in conseguenza degli
spostamenti umani, ma senza che ve ne fosse l’intenzione, come nel caso di
animali che vivono a contatto con l’uomo, ad esempio i topi, e di molti
parassiti, ad esempio i bacilli responsabili di malattie quali la peste o il
colera, si diffusero in tutto il mondo grazie agli scambi commerciali. In un
nuovo ambiente una specie può diffondersi e divenire molto numerosa, alterando
profondamente l’equilibrio naturale, come è avvenuto in Australia nel XIX
secolo con i conigli, i quali, introdotti dai contadini perché potevano essere
facilmente allevati nelle praterie di quel Paese, si moltiplicarono fino a
diventare un problema per l’economia australiana e per molte specie originarie.
Un cartello australiano illustra la grande recinzione costruita per
difendersi dalla proliferazione dei conigli
Tutti questi interventi hanno
provocato una riduzione dell’habitat di molte piante e animali, i cui effetti
si combinano con le conseguenze della caccia e della pesca nel determinare la
scomparsa di numerose specie: la fauna e la flora della terra si stanno
impoverendo progressivamente e addirittura alcune soluzioni adottate per
evitare i danni provocati all’ambiente si sono rivelate fallimentari (è del
febbraio 2016 la notizia che il rimboschimento effettuato in Europa negli
ultimi 150 anni con conifere al posto delle autoctone latifoglie abbia
contribuito all’aumento dell’effetto serra, anziché alla sua riduzione).
Proprio perché la consapevolezza
dei danni che l’uomo sta provocando all’ambiente è in aumento, in tutto il
mondo esistono associazioni che si occupano dei problemi ambientali e cercano
di fare pressione sui governi, affinché prendano provvedimenti a difesa dell’ambiente
naturale e delle specie minacciate. Alcune associazioni, come il World Wide
Fund For Nature (o World Wildlife Fund come si chiamava quando nacque nel 1961;
per capirci, il WWF) o Greenpeace, operano su scala internazionale, anche perché
si occupano di problemi (la distruzione della foresta amazzonica, il buco nell’ozono,
i test nucleari) che interessano tutta l’umanità.
Specie a rischia di estinzione, minacciata dall’impoverimento dell’habitat
in cui vive, il panda è divenuto uno dei simboli della protezione ambientale
Altre associazioni si occupano di
singole tematiche, ad esempio la caccia, i diritti degli animali, la
riforestazione in zone determinate e così via. Per operare tutte queste associazioni
hanno bisogno di fondi, che raccolgono attraversano le quote di iscrizione
pagate dai soci, o grazie a sovvenzioni di alcuni organismi, o ancora
attraverso scelte determinate da alcuni governi (come il cosiddetto 5‰ in
Italia). La loro azione ha contribuito ad estendere la superficie protetta sul
nostro pianeta, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, ed oggi, anche se
mancano dati sicuri, si può dire che circa il 4% delle terre emerse (il 10% in
Italia) è in qualche modo tutelato.
Molti governi sono coscienti
della necessità di difendere l’ambiente naturale, ma non sempre sono in grado
di prendere i provvedimenti necessari per evitare il degrado ambientale, anche
in Paesi sviluppati come l’Italia, dove periodicamente si assiste a catastrofi
(alluvioni, frane e simili) che nascono proprio dalla inefficacia o dalla
superficialità dei provvedimenti.
Una drammatica immagine dell’alluvione che nel 2011 devastò una vasta
area tra Liguria e Toscana (Italia)
Nei Paesi del Terzo Mondo il
continuo aumento di popolazione porta alla ricerca di nuove terre a danno degli
ultimi lembi di ambiente naturale e mancano i fondi e la volontà politica per
interventi efficaci. Il disboscamento dell’Amazzonia, ad esempio, potrebbe
essere evitato se il governo brasiliano fosse in grado di realizzare un’adeguata
riforma agraria, distribuendo terre coltivabili ai contadini senza terre; il
tentativo di una riforma agraria c’è stato, ma ha incontrato continue e forti
opposizioni da parte dei grandi proprietari terrieri, che hanno un grande
potere, tale da rovesciare il governo stesso.
Ciò nonostante alcuni di questi paesi
hanno compiuto notevoli sforzi per realizzare una protezione almeno parziale
del territorio nazionale, creando parchi naturali che possono anche costituire
una notevole fonte di reddito, come succede in Africa per i parchi del Kenya
(Amboseli) e della Tanzania (Serengeti, Ngorongoro), visitati da molti turisti.
Nei paesi ricchi l’esigenza di
proteggere l’ambiente è ormai avvertita da una parte consistente della
popolazione, perciò qui l’azione delle associazioni ambientaliste è più
efficace. Tuttavia è ancora forte l’opposizione di gruppi di interesse (o
lobbies, plurale di lobby), che temono di rimanere danneggiati: molte leggi
varate a difesa dell’ambiente si scontrano perciò con l’opposizione di settori
più o meno consistenti della popolazione, quali gli industriali o i cacciatori,
i petrolieri o le società edilizie. Molti di questi paesi hanno comunque
emanato leggi severe sull’inquinamento e sull’uso del territorio e tutti hanno
creato una rete di parchi, più o meno estesa.
Di fronte alla gravità del
problema ambientale diversi governi hanno cercato di stabilire accordi
internazionali per unire gli sforzi alla ricerca di una soluzione comune. Conferenze
a cui hanno partecipato i rappresentanti di quasi tutti gli stati, a partire da
quello di Stoccolma del 1972, hanno gettato le basi per una cooperazione internazionale,
indispensabile per un’efficace difesa dell’ambiente naturale. Uno degli accordi
più importanti è la Convenzione sul commercio internazionale delle specie in
via d’estinzione (Cites): grazie a questo accordo non è più possibile
trasportare da un paese all’altro animali rari vivi, ad esempio destinati a uno
zoo o a un circo, o parti di questi animali, ad esempio la pelliccia o l’avorio
delle zanne o del corno. Attualmente gli Stati che hanno firmato questa
Convenzione sono 182 (quasi tutti i paesi del mondo) e anche se questa proibizione
non ha eliminato il bracconaggio e il commercio illegale, ha comunque ridotto i
pericoli che corrono alcune delle specie più minacciate.
Alcuni paesi però non aderiscono
a questi accordi, per motivi economici o di prestigio: il Giappone, la Norvegia
e l’Islanda si sono a lungo opposti agli accordi per limitare la caccia alle
balene, così come la Francia soltanto nel 1996 ha smesso di effettuare
esperimenti nucleari nell’oceano Pacifico.