L’ATMOSFERA E IL CLIMA
In una lezione precedente (vedi
IL TEMPO METEOROLOGICO) si è già detto che cos’è l’atmosfera, come è composta e
come essa determina il clima sulla terra e, di conseguenza, la flora e la
fauna. In questa lezione alcuni concetti saranno ripresi per descrivere ciò che
succede sull’intero nostro pianeta a causa della presenza dell’atmosfera.
L’atmosfera, vale a dire lo
strato di gas che circonda la Terra, è costituito in prevalenza di azoto (78%)
e ossigeno (21%); l’ossigeno non era presente prima che in acqua comparissero i
primi vegetali, oltre due miliardi di anni fa. Esso infatti è prodotto dai
vegetali che utilizzano l’acqua e il carbonio, presente nell’anidride
carbonica, per produrre le sostanze necessarie alla loro crescita, i
carboidrati: durante questo processo (la fotosintesi clorofilliana) essi liberano
nell’atmosfera l’ossigeno presente nell’anidride carbonica.
Foresta nel Borneo (nello stato del Brunei)
Una parte dell’ossigeno liberato
dalle piante nell’atmosfera terrestre salì fino ad uno strato superiore, la
stratosfera, a circa 25 chilometri dal suolo, dove, per una serie di processi chimici,
si accumulò sotto forma di ozono. Questo gas riduce il passaggio delle
radiazioni ultraviolette, che, se presenti in forti quantità, distruggono i
tessuti degli organismi, rendendo impossibile ogni forma di vita. La
costituzione di uno strato di ozono permise quindi la comparsa di esseri
viventi sul nostro pianeta anche al di fuori dell’acqua.
La composizione dell’atmosfera è
stata nei secoli modificata dall’azione dell’uomo. Nello strato inferiore si ha
oggi, per effetto delle attività umane, un sensibile aumento dell’anidride
carbonica e di altre sostanze nocive, prodotte dalla combustione del carbone,
del petrolio e del gas naturale. La maggioranza di queste sostanze è prodotta
dagli U.S.A. e dall’Europa, che lentamente stanno adottando nuove tecnologie in
grado di diminuire l’inquinamento ambientale. Nei Paese di nuova
industrializzazione (Cina, India, Sudest asiatico) tali tecnologie non sono
applicate e ciò provoca il rapido aumento delle emissioni inquinanti in Asia.
Smog in una strada di Pechino: negli ultimi anni l’inquinamento
atmosferico in alcune città della Cina è diventato particolarmente allarmante
per la salute della popolazione
Anche la distruzione delle foreste
favorisce la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, perché vi
sono sempre meno vegetali in grado di utilizzarla nella fotosintesi, producendo
ossigeno.
Le attività umane influiscono
anche sullo strato di ozono. Questa forma dell’ossigeno è infatti instabile e
può perciò essere eliminata, attraverso reazioni chimiche diverse, se entra in
contatto con altri elementi: lo strato di ozono viene danneggiato dalle
emissioni causate dal notevole traffico automobilistico e dai diversi gas prodotti
dalle industrie o utilizzati dall’uomo (come i clorofluorocarburi, indicati
generalmente come CFC, che sono dei composti di carbonio e fluoro, che vengono
usati in molte bombolette spray e negli impianti frigoriferi).
Fin dagli anni Settanta del XX
secolo sopra l’Antartide e da alcuni anni anche sopra l’Artide, si è verificata
una forte riduzione dello strato di ozono (essa viene detta comunemente “buco
nell’ozono”); se tale riduzione continuasse, essa avrebbe gravi conseguenze per
ogni forma di vita. Perciò molti governi hanno sottoscritto accordi
internazionali per vietare l’uso industriale di alcune sostanze responsabili
del “buco nell’ozono”: attualmente, infatti, la produzione di CFC è scesa
dell’85% rispetto al 1986 e si prevede che entro il 2050 si possano
ripristinare i livelli di ozono precedenti alla scoperta del fenomeno.
Un’efficace immagine per sintetizzare gli effetti della distruzione
dell’ozono sul pianeta
L’atmosfera diviene sempre meno
densa e presenta caratteristiche diverse man mano che ci si allontana dalla
superficie terrestre: per questo gli scienziati l’hanno suddivisa in una serie
di strati, di cui quelli inferiori (la troposfera e la stratosfera) sono i più
importanti per la vita sulla Terra. La troposfera in particolare è l’unico
strato atmosferico in cui è presente l’acqua, in forma solida, liquida e
aeriforme. Qui si verificano i diversi fenomeni meteorologici che condizionano
la vita di ciascuno di noi.
Nuvole sulla foresta della Malesia: il vapore acqueo che costituisce le
nuvole è presente quasi esclusivamente nella troposfera
LE TEMPERATURE
L’atmosfera e la superficie
terrestre sono riscaldate dai raggi del Sole, che forniscono l’energia da cui
dipendono tutti i fenomeni meteorologici ed ogni forma di vita sul pianeta.
L’atmosfera riflette e assorbe il
22% delle radiazioni solari, prima che esse raggiungano la superficie
terrestre; un altro 23% circa viene riflesso e assorbito dalle nuvole, quando
sono presenti, perciò quasi metà dell’energia solare viene dispersa e non
arriva sulla superficie del pianeta.
Essendo la Terra sferica, i raggi
solari arrivano sulla superficie terrestre con un’inclinazione diversa. Nella
zona equatoriale quando è mezzogiorno essi sono perpendicolari al terreno: si
dice allora che il Sole si trova allo zenit. Man mano che ci si allontana
dall’equatore, i raggi solari arrivano al suolo con un’inclinazione maggiore e
si distribuiscono su un’area più ampia: lo si può dimostrare con un semplice
esperimento, fatto puntando il fascio di luce di una torcia su una superficie (anche
piana) e inclinandolo progressivamente. La distribuzione della radiazione
solare su un’area più ampia fa sì che le temperature presenti al suolo e
nell’atmosfera siano minori.
La radiazione solare globale
(cioè l’insieme di tutte le radiazioni che giungono al suolo) varia non solo in
base alla latitudine, ma anche nel corso dell’anno, a causa dell’inclinazione
dell’asse terrestre: infatti la rotazione della Terra avviene attorno a un asse
che è inclinato di circa 66° rispetto al piano dell’orbita (eclittica). Questo
significa che ogni emisfero per metà dell’anno viene illuminato dal Sole per un
maggior numero di ore ogni giorno e il Sole appare più alto all’orizzonte.
Nell’emisfero boreale il giorno
ha una durata massima nel solstizio d’estate (22 giugno) ed una durata minima
nel solstizio d’inverno (22 dicembre). Nell’emisfero australe la situazione è
opposta. Il 21 marzo e il 23 settembre si hanno invece i due equinozi (di
primavera e d’autunno), in cui la durata del giorno e quella della notte sono
entrambi di 12 ore su tutta la superficie terrestre. La diversa durata del dì e
della notte fa sì che le temperature variano, nel corso dell’anno, in base alle
stagioni, che sono sfasate nei due emisferi: quando nell’emisfero
settentrionale è estate, in quello meridionale è inverno e viceversa.
L’inclinazione dei raggi solari sulla Terra nei giorni dei due solstizi
I paralleli sui quali il Sole si
trova allo zenit nei giorni dei solstizi sono i tropici (del Cancro a nord e
del Capricorno a sud), entrambi a 23°27’ a Nord e a Sud dell’equatore.
Quelli oltre i quali il Sole non
appare all’orizzonte per una parte del periodo invernale e rimane invece al di
sopra dell’orizzonte 24 ore al giorno per una parte del periodo estivo, sono i
circoli polari (artico e antartico), entrami a 66°33’ Nord e Sud.
Questo fenomeno spiega
l’importanza di questi quattro paralleli (i tropici e i circoli polari) e il
fatto che in tutte le carte geografiche essi sono rappresentati in maniera
diversa dagli altri paralleli, cioè con una linea tratteggiata anziché
continua.
L’area compresa tra i tropici
viene chiamata zona equatoriale o torrida o anche intertropicale (più raramente
– e erroneamente – tropicale, in quanto la vera zona tropicale è quella a
cavallo dei tropici); le aree comprese tra i tropici e i circoli polari sono
dette zone temperate (boreale e australe); quelle oltre i circoli polari sono
le zone polari o glaciali (artica a nord, antartica a sud).
Poiché la temperatura dipende
dalla radiazione solare, essa diminuisce durante la notte, quando la Terra
perde calore. Questo calore, però, non viene completamente disperso, perché una
parte consistente (fin oltre il 90% se vi sono nuvole) è trattenuta
dall’atmosfera, in particolare dal vapore acqueo e dall’anidride carbonica:
l’atmosfera esercita infatti un effetto simile a quello ottenuto in una serra
(si chiama infatti effetto serra),
lasciando passare gran parte delle radiazioni solari in arrivo sulla Terra, ma
trattenendo e rimandando verso il basso quelle riflesse dalla superficie dei
continenti e degli oceani.
Da quasi mezzo secolo gli
scienziati hanno più volte segnalato che l’aumento della quantità di anidride
carbonica nell’atmosfera, causato da diverse attività umane e in particolare
dall’uso di combustibili fossili da parte delle industrie e dei mezzi di trasporto,
sta portando ad un aumento delle temperature: nell’ultimo secolo l’aumento è
stato di +0,8° e il 2015, con lo 0,9° in più rispetto alla media del XX secolo,
è stato l’anno più caldo degli ultimi 136 anni, cioè da quando la misurazione
delle temperature sulla Terra avviene in modo affidabile.
L’effetto serra sta provocando
profondi cambiamenti nel clima del pianeta, favorendo lo scioglimento dei
ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari, l’inondazione di ampi
tratti costieri e l’estendersi della desertificazione (fenomeno che colpisce in
modo particolare l’Africa, dove negli ultimi 50 anni 650.000 km², ossia più di
due volte la superficie dell’Italia, di terreno un tempo produttivo, si sono
trasformati in deserto).
L’effetto serra è aggravato dalla
distruzione delle foreste, perché le piante utilizzano una parte dell’anidride
carbonica presente nell’atmosfera.
Deforestazione e conseguente desertificazione ad Haiti
La consapevolezza, ormai globale,
di questi gravi problemi ambientali ha portato alla realizzazione di diversi
negoziati e trattati internazionali: tra questi il protocollo di Kyoto (dal
nome della città giapponese in cui è stato firmato), che è entrato in vigore
nel 2005 e impone ai Paesi industrializzati di trovare ogni mezzo attuabile per
contenere l’effetto serra. Purtroppo, malgrado numerose ratifiche del
protocollo, non molto è stato fatto concretamente.
La diversa radiazione solare nel
corso dell’anno e nel corso di un giorno porta gli studiosi a registrare quella
che viene chiamata escursione termica: essa può essere annua (o stagionale) e
misura le differenze di temperatura tra il mese più caldo (di solito luglio) e
il mese più freddo (di solito gennaio), oppure diurna (o giornaliera) e misura
le differenze termiche tra il dì e la notte.
Le temperature sulla Terra nei due periodi principali per registrare l’escursione
termica annua: il mese di gennaio (in alto), il mese di luglio (in basso)
Pur essendo le escursioni molto
diverse da zona a zona, se ne possono tracciare dei dati medi particolarmente
significativi. Nella cartina seguente si può vedere l’escursione termica nel
nostro pianeta e notare come essa sia maggiore nell’emisfero settentrionale,
dove è più ampia la superficie terrestre; al contrario la maggiore presenza
degli oceani nell’emisfero meridionale aumenta l’effetto mitigatore dell’acqua
sulle temperature e dunque qui l’escursione termica è minore.
I VENTI
La temperatura dell’atmosfera
determina le differenze di pressione dell’atmosfera stessa: l’aria calda pesa
meno di quella fredda e crea di conseguenza un’area di bassa pressione, mentre
l’aria fredda, essendo più pesante, crea un’area di alta pressione.
Le differenze di pressione
dell’atmosfera determinano a loro volta la formazione dei venti, i quali si
muovono dalle aree ad alta pressione (aree anticicloniche) verso quelle a bassa
pressione (aree di depressione). Poiché la superficie terrestre nelle zone
polari è più fredda che nella fascia equatoriale, a livello del suolo i venti
dovrebbero soffiare dai poli all’equatore. Però la direzione dei venti è
determinata anche dalla rotazione della Terra, la quale avviene ad una certa
velocità, mentre l’atmosfera si muove ad una velocità minore. Ciò provoca una
deviazione dei venti verso destra nell’emisfero boreale, verso sinistra in
quello australe. Numerosi altri fattori, che incidono sulla temperatura e di
conseguenza sulla pressione, rendono la circolazione dei venti molto più
complessa e la presenza di montagne, ostacolando i movimenti orizzontali
dell’aria, provoca il formarsi di correnti verticali.
Nuvole nel cielo sopra le Montagne Rocciose canadesi: la complessità
del sistema nuvoloso presente in questa foto fa capire la complessità della
circolazione dei venti nell’atmosfera
Tra i venti, quelli locali che si
manifestano periodicamente (ad esempio i vari tipi di brezze) interessano aree
limitate. Ben altra importanza hanno i venti che soffiano con direzione
regolare percorrendo grandi distanze: essi contribuiscono a determinare il
clima di una regione e costituiscono i fenomeni principali della circolazione
atmosferica.
Nella fascia tropicale, tra i 25°
ed i 30° di latitudine nord e sud, si trovano vaste aree anticicloniche, in cui
vi è totale assenza di nubi e perciò di precipitazioni. Da qui soffiano da est
verso ovest venti regolari, gli alisei. Nel tratto iniziale del loro percorso
essi sono del tutti privi di umidità, perciò le regioni su cui soffiano non
ricevono precipitazioni e sono desertiche (come nel Sahara nell’emisfero
settentrionale o nel Kalahari in quello meridionale). Soffiando sull’oceano gli
alisei si caricano però di umidità, che può scaricarsi sotto forma di pioggia,
quando i venti raggiungono le coste orientali dei continenti nella fascia
intertropicale: per questo motivo sulle coste occidentali dei continenti,
vicino alle aree di alta pressione da cui gli alisei hanno origine, le
precipitazioni sono scarsissime, mentre alla stessa latitudine sulle coste
orientali, dove gli alisei arrivano dopo aver attraversato l’oceano, le
precipitazioni sono abbondanti. Qui si possono verificare anche perturbazioni
violente, come gli uragani o cicloni equatoriali.
Le due foto sono state scattate in due località alla stessa latitudine
(a destra in Florida, a sinistra in Marocco), entrambe vicino alla costa; è
evidente l’effetto completamente diverso degli alisei
Nella fascia intertropicale
soffiano anche altri venti, i monsoni, presenti esclusivamente nella parte
sud-orientale dell’Asia. Nei mesi estivi essi soffiano dall’Oceano indiano
verso il continente, nei mesi invernali hanno direzione opposta. I monsoni
estivi, spesso accompagnati da perturbazioni violente, portano precipitazioni
particolarmente abbondanti: le aree interessate dai monsoni sono le più piovose
del mondo. I monsoni invernali, invece, sono privi di umidità e determinano una
stagione asciutta.
Si è sempre pensato che i monsoni
dipendessero dal diverso riscaldamento dell’oceano e della terra nel corso
dell’anno: in estate il continente si riscalda più rapidamente del mare, la
pressione diminuisce e perciò i venti soffiano dal mare verso la terra; in
inverno il mare si raffredda più lentamente, mentre sulla terra si formano aree
di alta pressione da cui i monsoni soffiano in direzione dell’oceano. Oggi
molti studiosi ritengono inesatta questa teoria, che non giustifica uno
spostamento così intenso di masse d’aria: i monsoni vengono invece considerati
semplicemente degli alisei deviati verso nord in estate, perché in India si
creano aree di pressione particolarmente basse per le alte temperature.
Comunque sia, i monsoni sono
importantissimi per le zone in cui sono presenti: oltre che un fattore
fondamentale per l’agricoltura (poiché la periodicità di questi venti può
variare anche di qualche settimana, dall’anticipo o dal ritardo del loro arrivo
dipende tutta la stagione agricola, ossia la carestia o l’abbondanza di
raccolti per milioni di persone), i monsoni sono responsabili di violente
inondazioni, che colpiscono in particolare il Bangladesh, con migliaia di
vittime i danni ingentissimi per la popolazione.
Alle latitudini medie, tra i 35°
e i 70°, soffiano i venti occidentali, che si dirigono quindi da ovest verso
est. In tutta questa fascia i venti sono assai meno regolari e le
caratteristiche climatiche sono di gran lunga più variabili, soprattutto
nell’emisfero settentrionale, dove la presenza di masse continentali molto
estese (con rilievi, pianure, foreste, praterie, mari interni, eccetera)
introduce numerosi elementi di differenziazione. I confini di questa fascia variano
a seconda delle stagioni, per cui le aree più vicine ai tropici possono
rientrare nei mesi estivi nella fascia a circolazione intertropicale, quelle
più vicine ai poli rientrano nei mesi invernali nella fascia polare.
Oltre i 70° di latitudine nord e
sud, dalle calotte polari venti freddi e poveri di umidità soffiano verso le
latitudini medie.
La presenza di aree cicloniche
nella fascia intertropicale può causare la formazione di uragani (chiamati
anche tifoni o cicloni). Essi si formano esclusivamente nelle aree intorno ai
tropici, nei mesi estivi, quando il mare raggiunge temperature di 25°-26°. Pur
toccando isole e coste, gli uragani non si spingono mai in profondità
all’interno dei continenti: quando passano su mari a temperatura inferiore o
sulla terraferma, la loro energia si indebolisce ed infine si esaurisce. Si
tratta comunque di fenomeni di una violenza impressionante, con venti che
possono soffiare anche oltre i 200 km orari (nel 2005 l’uragano Katrina ha
colpito le coste statunitensi della Louisiana ad una velocità di 280 km/h).
I danni provocati dagli uragani
sono assai gravi, specialmente se colpiscono centri abitati: essi possono
radere al suolo gli edifici costruiti in legno o in lamiera, rovesciare
automobili in terra e imbarcazioni in mare, sradicare pali elettrici con
conseguente blackout per interi paesi, provocare l’innalzamento del livello del
mare e quindi inondazioni.
Le aree più colpite sono le
Filippine, le coste del Mar della Cina, del Mar dei Caraibi e degli Stati Uniti
meridionali. Secondo alcuni studiosi le aree interessate a questi fenomeni si
stanno estendendo oltre i tropici, a causa dell’aumento delle temperature sulla
Terra. La pericolosità degli uragani è tale, che esistono attualmente servizi
di avvistamento (anche impiegando i satelliti artificiali), in modo da
individuare per tempo la loro formazione e adottare le misure d’emergenza (tra
cui l’evacuazione della popolazione) nelle regioni colpite.
Di portata molto più limitata, ma
anch’essi distruttivi, sono i tornado, vortici a forma d’imbuto, formati da
goccioline d’acqua, polvere e rottami, che girano su se stessi con una velocità
che può superare i 300 chilometri all’ora e normalmente percorrono distanze
limitate (5-10 km), ma a volte possono superare anche i 100 km.
Quando si formano sul mare e
portano con sé una notevole quantità di spruzzi d’acqua, vengono chiamati
trombe marine; pericolose quanto gli uragani e i tornado, le trombe marine sono
difficili da prevedere, poiché si formano molto rapidamente.
Gli scienziati non sono ancora
riusciti a spiegare l’origine dei tornado: si ritiene che il loro formarsi sia
causato dalla presenza di aree particolarmente instabili, in cui una massa
d’aria calda e umida sia sovrastata da una massa d’aria fredda e secca, ma che
dipenda anche dal rilievo, perché sono più frequenti nelle pianure ai piedi
delle maggiori catene montuose, quali l’Himalaya e le Montagne Rocciose.
LE PRECIPITAZIONI
Il movimento dei venti provoca lo
scontro tra masse d’aria a temperature diverse, che è la causa fondamentale
delle precipitazioni.
Se il vento soffia regolarmente
nella stessa direzione, il fronte di una perturbazione (ossia il margine nel
quale l’umidità atmosferica si condensa e precipita) si sposta anch’esso con
regolarità, entrando progressivamente in contatto con nuove masse d’aria a
temperatura diversa, maggiore o minore, e causando quindi nuove precipitazioni,
più o meno consistenti.
La distribuzione delle
precipitazioni sulla terra varia in base alla latitudine e alla stagione, come
avviene per le temperature, la pressione atmosferica e i venti. La fascia
equatoriale è caratterizzata da precipitazioni quasi sempre abbondanti (spesso
oltre i 2.000 mm annui), distribuite nel corso dell’anno, ossia con temporali
pressoché quotidiani, oppure concentrate in due stagioni, spesso di durata e
intensità diverse.
Più a nord e più a sud si
estendono invece le fasce tropicali, dove soffiano gli alisei: qui le
precipitazioni sono scarsissime, spesso sotto i 100 mm annui, e sono presenti i
grandi deserti.
Oltre i tropici, nella fascia tra
i 30° e i 60° di latitudine, le precipitazioni sono molto variabili, a causa
della disposizione dei continenti, dei mari e delle catene montuose: si va da
valori inferiori ai 100 mm nell’Asia centrale, a punte di quasi 2.000 mm
nell’America nord-orientale. In questa vasta zona le precipitazioni sono
relativamente regolari nel corso dell’anno, ma vi sono forti differenze tra le
regioni costiere (con precipitazioni soprattutto invernali) e quelle interne
(con precipitazioni prevalentemente estive). In queste ultime regioni e sulle
catene montuose più elevate si hanno anche precipitazioni nevose, frequenti
soprattutto oltre il 50° parallelo Nord, dove si verificano per più di 40
giorno all’anno (America settentrionale, Europa centro-orientale e Asia
settentrionale).
Nella fascia polare, infine, le
precipitazioni sono scarsissime in inverno e aumentano solo nei mesi estivi,
quando l’evaporazione è maggiore. In queste regioni le precipitazioni hanno
spesso valori inferiori ai 300 mm annui, ma quasi sempre sono a carattere
nevoso, e poiché le temperature sono basse, se non rigide, lo strato di neve
rimane sul suolo per mesi diventando ghiaccio.
LE ZONE CLIMATICHE
Il clima varia da regione a
regione per molteplici fattori; ciò rende impossibile un discorso generale
sulle zone climatiche della terra. Solo per semplificare, quindi, è possibile
individuare sul nostro pianeta vaste regioni in cui le condizioni climatiche
sono abbastanza simili per alcuni aspetti, ricordando però che all’interno di
ogni regione esistono variazioni locali anche notevoli.
Va considerato, inoltre, che non
esiste un’unica classificazione dei climi, perché gli studiosi danno
un’importanza diversa agli elementi che determinano il clima. Qui di seguito si
è utilizzata la classificazione proposta dai due studiosi tedeschi Carl Troll e
Karlheinz Paffen.
Oltre i due circoli polari
troviamo un clima di tipo polare o subpolare, caratterizzato da temperature
bassissime (anche al di sotto di -30° in inverno, meno di +10° in estate), con
precipitazioni scarse, più frequenti nei mesi estivi. Qui il terreno può essere
ricoperto da un manto nevoso o da uno strato di ghiaccio anche per tutto l’anno
e vi è una forte variazione stagionale nella durata del giorno.
A sud del circolo polare artico
(non esiste un corrispondente nel circolo polare antartico, per la mancanza di
terre emerse) vi sono ampie regioni interessate da un clima boreale
moderatamente freddo, più o meno influenzato dall’oceano: esso è caratterizzato
da temperature medie basse, al di sotto di -20° in inverno, tra i 10° e 20° in
estate. Anche in queste regioni il manto nevoso rimane per molti mesi e vi è
una forte variazione stagionale della durata del giorno, ma dove l’oceano
esercita una maggiore influenza, l’escursione termica annua e la rigidità
dell’inverno sono attenuate.
Dove invece il clima è di tipo
continentale (ossia lontano dal mare) si hanno temperature medie a gennaio al
di sotto dei -30°, con punte minime che sono i valori più bassi registrati nell’emisfero
boreale (-77,8° a Ojmjakon, in Siberia, nell’inverno del 1938). Le
precipitazioni sono scarse, anche se più abbondanti rispetto alla fascia
polare.
Scendendo di latitudine, al di
sotto della zona boreale e fino al parallelo di 40°, troviamo una zona
temperata fresca, presente soprattutto nell’emisfero settentrionale e solo parzialmente
in quello meridionale. Qui le temperature non raggiungono mai valori estremi;
l’escursione termica è però accentuata, perché vi è una forte differenza
stagionale, legata alla diversa durata del giorno. Le precipitazioni, causate
dalle nuvole trasportate dai venti occidentali, sono in forma di pioggia o di
neve e sono più frequenti nelle aree esposte all’influenza dell’oceano. Anche
l’escursione termica subisce l’influenza oceanica, infatti è maggiore nelle
zone continentali.
La zona subtropicale, estesa tra
i 40° di latitudine e i tropici (sia nell’emisfero settentrionale, sia in
quello meridionale), presenta climi più caldi, con minori variazioni stagionali
sia nelle temperature, sia nella durata del giorno. La presenza degli alisei
riduce le precipitazioni, che si manifestano quasi esclusivamente sotto forma
di pioggia e vicino ai tropici sono estremamente scarse, potendo anche non
verificarsi per uno o più anni: in queste zone si ha allora un clima di tipo
desertico, caratterizzato da una forte escursione termica diurna.
La zona equatoriale posta tra i
due tropici presenta un clima caldo, con ridotte differenze stagionali sia
nelle temperature, sia nelle precipitazioni. Queste aumentano man mano che dai
tropici (dove possono essere molto scarse) ci si avvicina all’equatore.
Le regioni montuose hanno
temperature più basse e precipitazioni più abbondanti rispetto alle regioni
pianeggianti vicine. Benché per il freddo intenso che lo caratterizza il clima
di alta montagna sia simile a quello polare o subpolare, esso se ne distingue
nettamente perché la durata del giorno è soggetta a variazioni annue minori,
che dipendono esclusivamente dalla latitudine e non dall’altitudine. Di
conseguenza, l’escursione termica annua è molto ridotta, mentre quella diurna
può essere fortissima, perché durante la notte la dispersione di calore è rapida
e intensa. Inoltre le precipitazioni sono di solito maggiori.
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